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mercoledì 9 novembre 2016

Padre Boutros di Aleppo colpito da un cecchino: "ringrazio Dio perchè posso condividere la croce di tante persone che oggi soffrono in Siria"


VATICAN INSIDER ,
8 novembre 2016

Guardare la morte in faccia è un’esperienza che può offrire un sussulto di fede anche a chi non crede in Dio. Tanto più Raban Boutros Kassis, vicario patriarcale siro-ortodosso di Aleppo, oggi dice di vivere un’esperienza di profonda vicinanza a Cristo. E’ scampato per miracolo a un attentato, finendo sotto il fuoco di un cecchino che due giorni fa, mentre era in auto, sulla strada del ritorno tra Homs e Aleppo, lo ha colpito due volte alla spalla. Il suo autista è riuscito a condurlo all’ospedale cattolico di san Luigi ad Aleppo, una delle poche strutture ancora funzionanti, ancorchè oberata di feriti, mutilati, malati. Un intervento chirurgico di urgenza gli ha salvato la vita e oggi i medici lo dichiarano fuori pericolo. Raggiunto al telefono da Vatican Insider, Raban Boutros Kassis racconta come questa esperienza lo abbia cambiato.  

Come si sente e cosa prova oggi, dopo aver rischiato la vita?  
«Nel mio cuore si agitano sentimenti contrastanti. Prima di tutto ringrazio Dio che mi ha protetto e mi ha conservato ancora in vita. Sono un miracolato. E ringrazio Dio perchè, in questa condizione e in questa esperienza, posso condividere la croce di tante persone che oggi soffrono in Siria, specialmente ad Aleppo. Ogni giorno la gente è ferita, vi sono mutilati, malati, ogni giorno si muore. Oggi posso dirmi felice di gustare il calice amaro della croce, in comunione con Cristo e con tanti innocenti che soffrono. Ma nel cuore ho la certezza che la morte non è l’ultima parola: l’ultima parola è la Risurrezione». 

Può raccontare cosa è accaduto?  
«Ero in auto con il mio autista, stavamo rientrando ad Aleppo, percorrendo l’autostrada a Sud della città. All’improvviso abbiamo visto delle persone che ci hanno sparato. Due proiettili di arma da fuoco esplosi da questi cecchini mi hanno raggiunto alla spalla. Dio ha voluto non abbiano colpito organi vitali. Il mio autista mi ha prontamente portato all’ospedale cattolico di san Luigi dove i medici, che ringrazio di cuore, mi hanno sottoposto a un immediato intervento chirurgico. Quella strada è in un’area controllata dalle truppe governative siriane, ma viene chiusa di sera perchè di notte gruppi di terroristi del Daesh e di Jubat Al-nusra nottetempo la infestano di mine. E diventa un luogo di morte». 

Come si vive oggi ad Aleppo?  
«La città è spaccata in due e il conflitto continua, mentre i civili sono quelli che soffrono. Ad Aleppo Ovest ci sono due milioni di persone. Le aggressioni e gli attacchi si susseguono, specie nei nostri quartieri, ogni giorno. Il nostro vescovado, ad Aleppo Ovest, è molto vicino al fronte con la parte Est di Aleppo. Durante bombardamenti con colpi di mortaio siamo stati colpiti diverse volte e siamo sotto il fuoco dei cecchini. Ci sono anche tentativi di sequestri che seminano terrore. Per questo molti cittadini, e tra loro i cristiani, hanno lasciato Aleppo, specie quanti hanno bambini, perchè non vogliono vederli feriti, mutilati o uccisi». 

Cosa vuole dire alla comunità internazionale?  
«Non posso far altro che rinnovare l’appello per salvare questa città martire. E chiedere aiuti umanitari. Aleppo è assediata e da oltre tre anni la gente rimasta soffre per mancanza di acqua, cibo, elettricità, gas.  Il governo siriano fa quel che può per cercare di garantire il minimo di assistenza sanitaria e educativa. Noi restiamo in città come i Pastori che vogliono stare vicini al gregge, per nutrire e dare conforto a chi soffre. La nostra richiesta è che tutti i foreign fighters e i terroristi che oggi alimentano la guerra tornino ai loro paesi di origine. E che le interferenze esterne in questa guerra finiscano». 

Come’è la situazione della comunità cristiana?  
«I cristiani condividono la sorte sofferente di tutti gli altri cittadini. I battezzati che non hanno lasciato Aleppo sono circa 35mila. E hanno fatto questa scelta sopportando con coraggio immani sofferenze e disagi. Dimostrano un attaccamento e un amore sviscerato per questo luogo, questa città santa e martire, e hanno quella forza che solo la grazia di Dio può donare. D’altro canto non possiamo biasimare chi è fuggito per salvare la propria famiglia. Questa settimana ad Aleppo abbiamo registrato, solo tra i cristiani, 20 morti e 40 feriti. Prima della guerra i cristiani di tutte le diverse confessioni ad Aleppo erano, in totale, circa 250mila. Dunque circa l’80% dei fedeli è fuggito: è una vera emorragia».  

Ha un pensiero speciale, vivendo questa sua sofferenza?  
«Vorrei ricordare oggi e affidare nuovamente a Dio i due vescovi rapiti da tre anni e mezzo, Paul Yagizi, Metropolita d’Aleppo per i greco-ortodossi d’Antiochia, e Gregorios Ibrahim, vescovo d’Aleppo per i siro-ortodossi. Con loro ricordiamo anche i due preti Michel Kayyal, della Chiesa cattolica armena di Aleppo, e Maher Mahfouz, sacerdote greco ortodosso. Non sappiamo ancora nulla della loro sorte. Speriamo siano ancora vivi e preghiamo perchè siano presto liberati». 

venerdì 10 giugno 2016

Il patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis

Terrorismo wahabita, guerre, flussi finanziari, colossali compravendite di armi: in un libro di Fulvio Scaglione storia, dati e numeri su ciò che per ragioni di business le democrazie occidentali fingono di non vedere




VaticanInsider , 10 giugno 2016
di Andrea Tornielli

«La conclusione, inevitabile, è una sola: sappiamo, ma facciamo finta di non sapere. Continuiamo a parlare di lotta al terrorismo islamico, ai jihadisti, ma non interveniamo abbastanza sul denaro, cioè sul motore che tiene in vita e promuove quello stesso terrorismo. Ci teniamo stretti come amici proprio coloro che sostengono chi anima quella che molti di noi considerano addirittura una minaccia alla sopravvivenza della nostra civiltà. E li armiamo, li rendiamo sempre più potenti e, all’occorrenza, devastanti». È l’amara ma realistica conclusione a cui arriva il giornalista Fulvio Scaglione, inviato di guerra e conoscitore del Medio Oriente, nel suo ultimo libro: «Il patto con il diavolo» (BUR, pp. 208, 15 euro), un saggio a metà tra storia e cronaca che spiega «come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis». Leggendo il saggio di Scaglione si comprende ancora meglio perché Papa Francesco, quando parla o viene interpellato sul terrorismo e sulla guerra, non ometta di citare spesso i trafficanti di armi, i flussi finanziari e una certa ipocrisia da parte di alcuni leader.  

Soldi e armi al fondamentalismo wahabita  
L’autore fa notare ciò che è - o dovrebbe - essere sotto gli occhi di tutti: l’attuale terrorismo, quello dell’Isis e di Al Qaeda, ha origini nel fondamentalismo wahabita che ha ricevuto e riceve sovvenzioni e armi da finanziatori che abitano nei paesi considerati i migliori alleati dell’Occidente. Nel libro molto spazio è dedicato al ruolo dell’Arabia Saudita che storicamente ha sempre tenuto sotto controllo e stroncato certi movimenti fondamentalisti in casa propria, ma li ha foraggiati per destabilizzare altri Paesi islamici, com’è stato fatto ad esempio con la Siria di Assad. «Per decenni l’Arabia Saudita ha giocato su questo schema - scrive Scaglione - e per decenni i suoi alleati occidentali hanno accettato di sottoscrivere un patto con il diavolo di cui ignoravano le implicazioni, o convinti di trarne comunque un guadagno. Senza notare, o facendo finta di non vedere, quanto i due piani fossero intrecciati, perché proprio la spinta alla diffusione mondiale del radicalismo aggressivo insito nella variante wahabita dell’islam garantisce alla monarchia saudita la legittimità e il consenso necessari a conservare il trono e le ricchezze». 

Davvero «moderati»?  
I danni che questo atteggiamento ha procurato ai Paesi occidentali sono enormi. È curioso, sottolinea l’autore del libro, che i più restii ad ammetterlo siano proprio coloro che più agitano la bandiera dello scontro di civiltà e dipingono a tinte sempre più fosche l’ipotetico futuro di un’Europa assediata da orde di potenziali terroristi. Non pare incredibile che questi stessi personaggi ci abbiano tanto a lungo raccontato la favola dei sauditi e delle altre monarchie del Golfo come “arabi moderati”?». Scaglione fa notare come non sia un caso che proprio Bruxelles sia stato il luogo di «allevamento» dei terroristi che hanno recentemente colpito la Francia e il Belgio, ricordando che proprio lì dal 1969 si è insediato il primo importante centro di propaganda wahabita d’Europa. Pur essendo patria di non più del 2 per cento dei musulmani del mondo, l’Arabia Saudita esercita «un’influenza importante o decisiva su quasi il 90 per cento delle istituzioni islamiche mondiali, soprattutto nelle scuole». 
Ricorda pure che i terroristi qaedisti degli attacchi dell’11 settembre 2001 erano in maggioranza di nazionalità saudita e ricevevano denaro in gran quantità da persone residenti a Dubai. La «guerra al terrore» dichiarata da George W. Bush dopo gli attacchi agli Stati Uniti non ha cambiato nulla nei meccanismi di finanziamento del jihadismo, ed è per questo, sostiene Scaglione, che il terrorismo oggi riesce a colpire con maggiore frequenza e crudeltà. 

Il business delle democrazie europee  
Anche se l’Arabia Saudita non è stato e non è l’unico Paese che alimenta l’estremismo e il jihadismo, nessuno «ha potuto mettere in campo una potenza finanziaria, diventata poi potenza di fuoco, paragonabile a quella dei sauditi». Secondo una proiezione inglese «magari aleatoria ma comunque indicativa», nei 74 anni della sua storia l’Unione Sovietica avrebbe speso quasi cinque miliardi di sterline per fare propaganda al comunismo fuori dai propri confini; l’Arabia Saudita, diventata prospera grazie allo sfruttamento del petrolio a partire dalla fine degli anni Trenta, per diffondere il wahabismo ne avrebbe già investiti quasi novanta». Forse il motivo per cui molti in Occidente fingono di non vedere è il business. L’Arabia Saudita è, ad esempio, il primo partner commerciale del Medio Oriente per la Gran Bretagna, con 200 joint ventures che producono un giro d’affari di circa 18 miliardi di sterline l’anno. Le forze armate saudite sono il miglior cliente dell’industria britannica degli armamenti, con ordini per 4 miliardi di sterline tra il 2010 e il 2015. Per la Francia sta accadendo qualcosa di simile, dopo la firma di contratti per 10 miliardi di euro siglati da duecento industriali francesi guidati a Ryad nell’ottobre scorso dal primo ministro Manuel Valls. L’Italia ha raggiunto nel 2014 un interscambio commerciale di 9 miliardi di euro, e punta a incrementarlo. 

Il caso Stati Uniti  
L’Arabia Saudita, ricorda Scaglione, ha un volto moderno, da Paese sviluppato, perché nella seconda metà del Ventesimo secolo gli americani gliel’hanno costruito pezzo per pezzo. Fino all’anno 2000 anche i ministeri e le principali agenzie governative saudite si servivano di personale americano i cui contratti erano firmati dal Dipartimento del Tesoro Usa. Nel 2010 Barack Obama ha autorizzato la più imponente vendita di armi nella storia degli Stati Uniti, proprio a favore dell’Arabia Saudita: 60 miliardi di dollari in aerei, elicotteri, missili terra-aria e terra-terra, mitragliatrici, radar. Con quella sola firma il Nobel per la Pace che si prepara a concludere il suo secondo mandato alla Casa Bianca aveva quasi eguagliato 56 anni di commercio di armamenti tra i due Paesi, dato che nel periodo 1950-2006 gli Usa hanno fornito ai sauditi armamenti per 62,7 miliardi di dollari. Lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) che monitora il commercio di armi nel mondo, informa che nel periodo 2011-2015 i quattro maggiori importatori di armi sono stati nell’ordine: India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti. «L’India e la Cina - commenta Scaglione - contano insieme 2 miliardi e 620 milioni di abitanti. L’Arabia Saudita e gli Emirati ne contano insieme 36 milioni. Eppure competono, quanto ad acquisto di armi, con questi colossi asiatici». Possiamo davvero stupirci, si domanda l’autore del libro, se poi il Medio Oriente è in fiamme? «E davvero crediamo - continua - che tutte quelle armi siano acquistate a mero scopo di difesa? Siamo davvero convinti che mitragliatrici, cannoni e pallottole stiano chiusi nei magazzini sauditi e degli Emirati a prendere polvere... oppure avremo l’audacia di immaginare che un po’ di quella roba se ne vada in giro ad alimentare la violenza in questo o quel gruppo jihadista?». 

Le verità della candidata Hillary  
Fulvio Scaglione domanda poi quali cambiamenti possiamo attenderci nel prossimo futuro da Hillary Clinton, la prima candidata donna alla Casa Bianca - al momento favorita - dato che una delle principali fonti di finanziamento della fondazione che fa capo a lei e al marito Bill «risulta essere il denaro in arrivo non solo da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ma da tutti i Paesi e i soggetti in qualche modo beneficiari del commercio internazionale di armi?». Eppure, grazie alla diffusione delle comunicazioni riservate dello scandalo WikiLeaks, sappiamo che proprio Hillary il 30 dicembre 2009, quando era Segretario di Stato (durante il suo mandato approverà vendite di armi per 165 miliardi di dollari, quasi il doppio di quanto approvato da Bush jr nel suo secondo mandato), in un documento catalogato con il numero 131801 scriveva: «L’Arabia Saudita resta una base decisiva di supporto finanziario per Al-Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba e altri gruppi terroristici, compreso Hamas». In quello stesso documento la futura candidata democratica alla Casa Bianca, osservava: «I donatori privati dell’Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi di terrorismo sunnita nel mondo» e che era «una sfida senza fine quella di convincere le autorità saudite ad affrontare il finanziamento dei terroristi che nasce nel loro Paese come una priorità». 

Le parole di Joe Biden  
Le comunicazioni riservate di Hillary non erano affatto considerazioni isolate nell’amministrazione Obama. Nell’ottobre 2012 il vicepresidente Biden, incontrando gli studenti di Harvard, per spiegare la crisi in Siria e la genesi dell’Isis ha detto: «Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti... che cos’hanno fatto? Hanno riversato centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi su chiunque dicesse di voler combattere Assad. Peccato che tutti quei rifornimenti andassero a finire ad Al-Nusra, ad Al-Qaeda e ai jihadisti accorsi a combattere in Siria da ogni parte del mondo». Qualche anno prima, nel 2007, il vice-segretario del Tesoro Stuart Levey, che aveva la delega all’intelligence sui reati finanziari e sul terrorismo, aveva più volte dichiarato anche in Tv: «Se potessi schioccare le dita e tagliare ai terroristi i finanziamenti di uno specifico Paese, sceglierei senz’altro l’Arabia Saudita». 

Quei dubbi del vescovo Hindo  
Nella parte finale del libro, Scaglione dà voce a quegli inascoltati leader delle Chiese cristiane orientali che vivono in Medio Oriente. E ricorda come ha reagito lo scorso marzo monsignor Jacques Behnan Hindo, vescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, a cavallo tra Siria e Turchia, il quale nel marzo scorso, di fronte all’accusa di genocidio rivolta dal Segretario di Stato americano John Kerry, in un’intervista invitava a non puntare ogni riflettore sull’Isis, e così «censurare tutte le complicità e i processi storico politici che hanno portato alla creazione del mostro jihadista, a partire dalla guerra fatta in Afghanistan contro i sovietici attraverso il sostegno ai gruppi armati islamisti. Si vogliono cancellare con un colpo di spugna tutti gli strani fattori che hanno portato all’emersione rapida e repentina di Daesh». 

sabato 12 marzo 2016

Se la violenza genera misericordia: mons Samir Nassar, arcivescovo maronita di Damasco

L'ultima devastazione : Chiesa St Sergio e Bacco Tabqa (Thawra) sulla diga dell'Eufrate a 50 Km da Raqqa

VaticanInsider, 11 marzo 16
di Paolo Affatato

Nella logica paradossale del Vangelo, nella sapienza della Croce, rivelata solo ai «piccoli», in quella debolezza che, come dice san Paolo, diventa «forza», «la violenza che da cinque anni lacera la Siria è divenuta fonte e generatrice di misericordia», per famiglie, preti di ogni confessione, consacrati. 
Lo racconta a Vatican Insider Samir Nassar, arcivescovo maronita di Damasco, che vede la sua comunità ferita dalla sofferenza ma – in modo misteriosamente riconducibile solo all’azione di grazia del Padre – farsi instancabile promotrice di compassione e perdono, misericordia e solidarietà. Un dono di Dio, «capace di trarre il bene anche dal male», rimarca Nassar, nello speciale Giubileo che, tra mille difficoltà, lutti e disagi di un conflitto prolungato, si vive anche in Siria. Con questo sguardo provvidenziale è stata accolta dai cristiani locali la morte del diacono Camille, colpito a marzo del 2013 dalle schegge di un proiettile di mortaio. La sua morte ha infuso rinnovato vigore spirituale ai cattolici maroniti che hanno avviato la costruzione di tre cappelle nei quartieri periferici della capitale, in aree ridotte in macerie.  

Come si vive la misericordia tra i rifugiati, tra famiglie disgregate e segnate dalla guerra?  
«Ci sono già 12 milioni di rifugiati siriani e il numero sembra destinato a crescere ancora. Le organizzazioni di solidarietà hanno messo a disposizione tutte le risorse e vengono travolte dalle crescenti necessità di questa gente. Oggi, allora, è la famiglia, baluardo della società mediorientale, ad assorbire il trauma, dando sollievo e conforto. In una generosa dimostrazione di solidarietà, le famiglie – fino a un numero di venti persone – condividono una singola stanza, dividendo il pane quotidiano, la vita di ogni giorno e anche i luoghi di sepoltura. Queste famiglie agiscono per gratuità, non cercano alcun rimborso o contraccambio e sono incarnazioni silenziose della misericordia».

Come vivono in questa situazione i sacerdoti?  
«In primis va detto che il compito sacramentale dei sacerdoti in tutte le Chiese orientali è stato notevolmente ridotto a causa della guerra. Ma quello pastorale si è ampliato: i sacerdoti sono diventati preziosi “assistenti sociali” a servizio delle famiglie povere colpite. I preti, nel loro servizio instancabile, mostrano il volto misericordioso del Signore. Invece di scappare, accettano con coraggio la loro missione di oggi, come fedeli servitori della misericordia, fino all’ultimo, perché rischiano la vita. La comunità cristiana in Siria ha già perso cinque sacerdoti che hanno offerto la loro vita, donandosi totalmente al dialogo e all’aiuto dei più vulnerabili. Due vescovi e quattro preti sono tuttora dati per dispersi, sequestrati mentre erano in missione cercando di portare aiuti a persone in estrema necessità».

Vi sono anche molti consacrati che si dedicano al soccorso della popolazione...  
«Suore, monaci e laici consacrati si sono dedicati anima e corpo ad aiutare la popolazione siriana, ridotta in miseria. Aleppo è stata senza acqua ed elettricità per un lungo periodo di tempo. La vita era a luce di candele. E come si può vivere senza acqua? Alcuni gruppi di religiosi si sono impegnati a portare l’acqua in casa a tante persone anziane e malate. Sono andati alla ricerca di acqua nei pozzi disponibili, portandola in cisterne, perfino in gusci vuoti di bomba, per fornire 20 litri di acqua a ogni casa. Le cosiddette “mense del cuore”, poi, preparano cibo per i bisognosi e rappresentano un’ancora di salvezza per molti che sono ammalati, soli o vulnerabili. Accanto all’aiuto umanitario, i religiosi si prodigano in un’opera di tipo psicologico e spirituale: confortare e aiutare a superare i traumi della guerra. Per esempio a Damasco ci sono team specializzati che offrono supporto psicologico ai bambini traumatizzati dalla guerra e dalla violenza. Riuniscono bambini di tutte le religioni per una sorta di “rieducazione alla pace”: imparare cosa vuol dire vivere insieme e accettare serenamente le differenze. Questo è un progetto d’avanguardia che rivela l’impegno silenzioso della Chiesa e che rappresenta una via per il futuro. Un altro movimento, guidato dai Gesuiti, si rivolge ai giovani, oggi più che mai decisi a lasciare il paese, per accompagnarli in questo tempo di disagio e far sì che restino».

Ci sono altre iniziative degne di nota, a beneficio della popolazione?  
«Molte iniziative vanno avanti nel nascondimento, lontane dai riflettori dei mass-media, come le attività quotidiane svolte dalla Società di San Vincenzo de’ Paoli, da confraternite mariane, da orfanotrofi, ordini religiosi, preti e laici che girano instancabilmente per i luoghi affollati dai rifugiati. Nello slancio di carità, che manifesta la compassione verso il prossimo, resta centrale la famiglia, segno resistente e duraturo dello splendore della misericordia, che di fatto oggi fa andare avanti la Chiesa e il Paese».

Ne vuole riferire qualcuna in particolare?  
Vorrei segnalare l’opera del Movimento della Fraternità, fondato in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1967 da padre Paul, sacerdote Lazzarista che, grazie a diversi collaboratori, ha creato un centro di produzione di protesi per disabili. Il Movimento è stato tra i primi a rispondere a questo conflitto spietato che ogni giorno crea nuovi feriti e mutilati. Agendo in partnership con i circuiti di beneficenza legati alle parrocchie, il Movimento cura la riabilitazione per i feriti e mutilati, offendo loro un periodo di riposo. Questo è il volto del “Buon Samaritano”, che in Siria assume i tratti di padre Paul, un autentico “genio della sanità”».

Com’è nata l’idea di costruire tre nuove cappelle e cosa significa?  
«Per noi è un gesto di reazione pacifica, compiuto in nome di Cristo, contro la morte e la distruzione. Le cappelle sono segno di una comunità che è tuttora viva e vigile. La prima, intitolata ai Martiri di Damasco del 1860, è stata inaugurata all’inizio dell’anno, le altre due saranno ultimate nei prossimi mesi. Sono davvero commosso vedendo con quanta sollecitudine e cura l’intera comunità maronita si è fatta carico dei tre progetti, che rappresentano un concreto segno di speranza e fiducia nel futuro della Chiesa in Siria, in quest’Anno della Misericordia. Le abbiamo volute anche in memoria del diacono Camille, ucciso nel marzo 2013 dalle schegge di un colpo di mortaio mentre si trovava vicino a una chiesa. Dopo quell’evento ho detto ai sacerdoti che, se volevano, potevano lasciare la città. Ma tutti mi hanno risposto: se tu resti, restiamo anche noi. La nostra missione sotto le bombe continua ed è segno di una fede martirizzata che si rifiuta di morire».

giovedì 3 marzo 2016

Patriarca Rai: l’incontro tra il Papa e Kirill è stato un fatto provvidenziale e i cristiani del MO giudicano positivamente l’intervento russo nel conflitto siriano


Il Medio Oriente è sconvolto dalla tempesta delle guerre, del terrorismo e delle pulizie etnico-religiose. Ma la tempesta passerà, e anche i cristiani non spariranno dalle terre dove è nato Gesù e si è diffuso il primo annuncio cristiano. 
Il cardinale libanese Boutros Bechara Rai, Patriarca di Antiochia dei maroniti, non sembra contagiato dai toni catastrofici che segnano tanti interventi di altri vescovi e Patriarchi mediorientali. Lui dà ragione con accenti appassionati della speranza cristiana che lo anima anche riguardo al futuro del Vangelo in quella parte del mondo. 
Beatitudine, esponenti di altre Chiese cattoliche orientali hanno espresso riserve per l’abbraccio tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill, e soprattutto per la dichiarazione comune da loro sottoscritta. Come è stato vissuto quell’evento tra i cristiani del Medio Oriente?
“Da noi l’ecumenismo non è una questione accademica. È la vita di tutti i giorni. Tra cristiani di diverse tradizioni ci incontriamo spesso e decidiamo tutto insieme. Abbiamo percepito l’incontro tra il Papa e il Patriarca russo come un fatto provvidenziale, e io l’ho scritto anche al Papa. La dichiarazione comune, la sto leggendo un pezzo per volta al programma di formazione cristiana che tengo ogni settimana in tv. Ho cominciato coi paragrafi dedicati ai cristiani in Medio Oriente. La prossima settimana tratterò della parte sulla famiglia. Io ho rapporti fraterni anche col Patriarca Kirill. Ci scriviamo sempre, mi sono consultato con lui anche sulle questioni della politica”.
Quale giudizio prevale tra i cristiani del Medio Oriente riguardo all’intervento russo in Siria, che ha cambiato le sorti del conflitto e viene criticato da molti circoli in Occidente?
“La Russia si occupa da sempre dei cristiani del Medio Oriente, soprattutto quelli ortodossi. Nel solo Libano, i russi hanno aiutato a far nascere almeno un’ottantina di scuole ortodosse, che rappresentano un contributo importante per la vita ecclesiale. Riguardo alla guerra, ai nostri occhi l’intervento della coalizione guidata dagli americani non ha fatto altro che consolidare i jihadisti del Daesh, lo Stato Islamico. E questo ci spingeva sempre a porci delle domande. Poi sono arrivati i russi, stanno colpendo Daesh e allora si sentono le proteste di chi li rimprovera di voler solo sostenere il regime siriano… Allora non ci si capisce più niente. Noi sappiamo solo che non è possibile essere preda delle organizzazioni terroristiche: Daesh, al Qaida, al Nusra, e i mercenari che ci mandate dall’Occidente… Quindi noi giudichiamo positivamente questo intervento russo, come una lotta concreta lotta contro il Daesh. Poi, è ovvio che tutti gli Stati hanno i propri interessi politici. Ma almeno c’è una Nazione, la Russia, che parla anche dei cristiani del Medio Oriente”.
Ma c’è sempre bisogno di qualcuno che difende dall’esterno i cristiani del Medio Oriente? Non c’è il pericolo di teorizzare per loro nuovi protettorati, come quelli esercitati un tempo dalle potenze occidentali? 
“Non c’è più nessun protettorato, e forse non c’è mai stato. Gli Stati facevano i loro interessi, sotto la coperta del protettorato. Noi non abbiamo bisogno di protettori. Abbiamo bisogno solo che dall’esterno ci lascino in pace, Prima di questi interventi esterni, c’erano stati tanti problemi, ma negli ultimi tempi vivevamo in pace. Lungo la storia abbiamo sempre trovato le vie per andare avanti”.
Eppure ci sono tante forze e organizzazioni, anche politiche, che dicono di voler aiutare i cristiani in Medio Oriente.
“Sì, va bene, ma si tenga conto che noi non siamo degli individui isolati, o delle piccole minoranze derelitte. Siamo la Chiesa di Cristo, che si trova in Medio Oriente. Ci sono quelli che trattano i cristiani mediorientali come dei poveretti, quelli che dicono: venite da noi, che vi accoglieremo, cinquanta qui, cento lì, cinquecento in quell’altro Paese…. A questi dico che le cose non funzionano così. Noi vogliamo rimanere nella terra nostra, insieme ai musulmani, dove abbiamo vissuto insieme per 1400 anni, e vogliamo rimanerci nel nome del Vangelo. Abbiamo creato una cultura insieme, una civiltà insieme. E tutti quelli che ora combattono in Medio Oriente, non sono del Medio Oriente”.
L’alternativa obbligata, in Medio Oriente, è tra regimi autoritari e fanatismo jihadista?
“L’ultimo tempo di sangue e dolore è iniziato coi popoli di diverse nazioni che esprimevano il legittimo desiderio di riforme politiche. È un diritto chiedere cambiamenti. Ma poi quelle richieste sono sparite, e sono venute fuori le organizzazioni terroristiche, sostenute da fuori con i soldi, le armi e il sostegno logistico. A tanti che ne parlano sempre, la democrazia e la libertà non interessa davvero. Hanno altri interessi”.
C’è anche chi, riguardo alla condizione vissuta ora dai cristiani in Medio Oriente, utilizza sempre le categorie di persecuzione e addirittura di genocidio. L’uso di queste espressioni è sempre appropriato?
“Il problema in Medio Oriente non un problema di persecuzione dei musulmani sui cristiani. I problemi sono altri: quelli tra sciiti e sunniti, tra regimi e gruppi terroristici, e tra Arabia Saudita e Iran, che si fanno la guerra sul suolo della Siria, dell’Iraq, dello Yemen, e in Libano si fanno guerra politica. I cristiani ci vanno di mezzo, ci sono stati attacchi mirati, perchè nel caos succede sempre così. Ma non possiamo parlare di persecuzione vera e propria e sistematica, e tanto meno di genocidio. Ci sono molte più persecuzioni contro i musulmani che contro i cristiani, I cristiani sono vittime come tutti gli altri, ma i 12 milioni di siriani che sono dovuti scappare dalle loro case non sono cristiani. Anche le atrocità del Daesh sono rivolte più contro i musulmani che contro i cristiani”.
Ma anche fuori dagli scenari di guerra, nei Paesi del Medio Oriente i cristiani vivono spesso situazioni obiettive di discriminazione. 
“Ci sono difficoltà, maltrattamenti, ci sono regimi che non rispettano la libertà religiosa, ma tutto questo è un’altra cosa rispetto alla persecuzione e addirittura al genocidio. E sono situazioni con cui noi abbiamo una certa familiarità storica. Se ci si lascia in pace, troveremo noi le soluzioni per andare avanti nelle situazioni nuove che ci troveremo a vivere. I protettorati del passato, di cui abbiamo accennato prima, hanno fatto più danni che bene ai cristiani che dicevano di voler difendere. Gli Stati fanno solo i loro interessi, e i cristiani venivano identificati come un corpo estraneo, da espellere. Mentre noi nelle nostre terre ci siamo nati, e abbiamo saputo vivere anche sotto i regimi più dittatoriali. Per questo nelle nostre terre noi non saremo mai “minoranze”, anche se rimanesse un solo cristiano in tutto il Medio Oriente I cristiani mediorientali riconoscono i limiti, rispettano le leggi e le autorità costituite. Sanno bene di vivere in Paesi dove l’islam è religione di Stato, la Sharia e sorgente principale delle leggi. Desiderano le riforme, Certo. Ma rispettano i tempi della storia. A quelli che vengono con le bombe, che fanno la guerra con la scusa di voler la democrazia e le riforme, o addirittura dicono di voler aiutare i cristiani, non si può dar credito. Non vogliono davvero le riforme. Cercano altro”.
Quale è allora il modo di aiutare i cristiani che soffrono?
“Chi riceve i colpi non è come quello che li conta. Dobbiamo sempre immedesimarci con chi è in difficoltà, perché siamo la Chiesa di Cristo. Ma stare vicino a chi soffre non vuol dire invitare i cristiani a fuggire dalle loro terre. Bisogna aiutarli lì dove si trovano. Ai politici stranieri che incontro ripeto sempre: fate finire la guerra, trovate soluzioni politiche ai conflitti, e lasciateci in pace, Non chiediamo altro”.
Nel disastro del Medio Oriente, il Libano vive una crisi istituzionale devastante. Eppure non è stato risucchiato dai conflitti. 
“Il Libano rimane una necessità per tutto il Medio Oriente. Lì cristianesimo e islam vivono in una condizione di eguaglianza”.
Ma anche lì la situazione politica è bloccata dallo scontro tra forze allineate con l’Iran o con l’Arabia Saudita. 
“All’Iran chiediamo sempre di fare pressioni sul Partito sciita di Hezbollah, perchè la smettano di boicottare le elezioni presidenziali. Siamo senza Presidente da quasi due anni, fanno mancare sempre il quorum alle riunioni del parlamento convocate per l’elezione. Al posto di Presidente deve essere eletto un cristiano maronita. Ma quelli di Hezbollah hanno deciso di boicottare ogni candidatura che non sia gradita a loro”.
Vede davvero qualche possibilità di trovare una via d’uscita dal conflitto siriano? 
“Finché la Turchia tiene aperte le frontiere a tutte le organizzazioni terroristiche, la pace rimane un sogno. E la coscienza della comunità internazionale sembra essere morta. Tutti questi esseri umani sparsi nelle strade del mondo non significano niente, per chi ha in mano il potere nel mondo”.
Tanti capi cristiani ripetono dichiarazioni catastrofiche. Lei, invece, una volta ha detto che anche questa tempesta passerà. 
“I cristiani non sono un gruppo etnico-religioso, e non sono un partito politico. Sono i figli della Chiesa di Cristo. La loro presenza, anche in Medio Oriente, non dipende solo dagli equilibri politici e dalle vicissitudini della storia. C’è una tempesta, e allora noi facciamo il gioco della canna, che si piega, non si irrigidisce, e la tempesta passa, e la canna non si spezza. Abbiamo vissuto difficoltà peggiori di quelle presenti, ai tempi di Mamelucchi e degli Abassidi. Anche i Patriarchi maroniti hanno vissuto per 400 anni in posti inaccessibili, in piccole celle in alte montagne, altre volte nel profondo di valli isolate, per custodire e essere custoditi nella fede cattolica. La fede non è mai spenta dalle tribolazioni, come si vede bene anche in tutta la storia della Chiesa di Roma. Io sento che il Medio Oriente ha più che mai bisogno di noi, ha bisogno di sentire un’altra voce. Diversa da quella della guerra, dell’odio, del sangue innocente sacrificato. Ha bisogno della voce del Vangelo. Oggi più che mai”.  
http://www.lastampa.it/2016/02/21/vaticaninsider/ita/inchieste-e-interviste/non-c-nessun-genocidio-di-cristiani-e-non-ci-servono-protettori-k1buJtC2euLob4snOaNsjI/pagina.html 

martedì 26 gennaio 2016

“Io, esule di Aleppo con la forza del perdono” la testimonianza di Claude Zerez



Vatican Insider, 25 gennaio 2016
di Giorgio Bernardelli

«Quando accompagnavo i pellegrini era Pascale ad insegnare loro il Padre Nostro in aramaico». C’è tutta la vita di Claude Zerez, nell’immagine della ragazzina che proietta sullo schermo. L’amore profondo per le sue radici, il dolore per quella figlia portata via in modo brutale, ma anche lo sguardo di chi dentro la sua via crucis non è rimasto prigioniero dell’odio. 

Era il 9 ottobre 2012 quando la rapirono, mentre su un autobus da Homs stava tornando ad Aleppo. Erano milizie legate all’Esercito Siriano Libero, il fronte degli oppositori a Bashar al Assad. Aveva vent’anni, la ritrovarono cadavere. Fu allora che questo cristiano melchita di Aleppo - grande conoscitore dell’arte sacra dell’Oriente, guida di tanti gruppi di pellegrini in Siria - scrisse una lettera aperta a Francois Hollande, con parole molto forti sul sostegno politico offerto dalla Francia ai gruppi ribelli, sempre più infiltrati dai gruppi salafiti. «Avete visto come Aleppo, la città più antica è diventata una città fantasma? - scriveva nell’ottobre 2012 -. Potete immaginare Parigi come una città fantasma, dove centinaia di migliaia di famiglie francesi si aggirano in cerca di ripari per evitare spari, bombe e atti di discriminazioni arbitrarie, di fanatismo e brutalità?». 
A distanza di tempo quelle parole si sono rivelate una drammatica profezia. «Ma a Parigi è successo un giorno solo. Invece ad Aleppo da cinque anni è una storia quotidiana». A raccontarlo è lui stesso, in un incontro organizzato a Bresso dal locale Centro Culturale Manzoni, tappa milanese di una serie di testimonianze che Claude Zerez sta tenendo in questi giorni in diverse città italiane. Non analisi geopolitiche, ma il racconto di una storia che porta dentro di sé anche mille altre ferite.  

Porta al collo il rosario di Pascale: l’ha accompagnato nel suo cammino da esule. Perché anche Claude Zerez è stato costretto a fuggire lontano dagli orrori della guerra; oggi vive proprio in Francia. «Ho perso tutto quello che avevo - racconta -. Ma la cosa peggiore è ovviamente perdere una persona cara. Come credente ho trascorso i primi sei mesi a lottare con Dio. Ma la rabbia per l’assenza fisica di mia figlia, a poco a poco, ha lasciato il posto a una presenza spirituale. Quando siamo scappati da Aleppo tutti ci dicevano che eravamo matti, era troppo pericoloso. Abbiamo dovuto attraversare un’infinità di posti di blocco, ogni volta avremmo potuto morire. Ma proprio lì ho sentito accanto la presenza di Pascale, come se avesse steso un velo per proteggerci». 
«Mi chiedono spesso se abbia perdonato gli assassini di mia figlia - continua Claude Zerez - Rispondo: perdono, ma non dimentico. Ho fatto mie le parole di Gesù: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Un musulmano me l’ha sentito dire e mi ha detto: “Lei mi ha spinto ad amare di più i cristiani”. Ecco: questo è l’inizio della riconciliazione». 

Li nomina spesso i musulmani Claude Zerez. Sottolinea che sono vittima anche loro delle bande jihadiste che imperversano nel suo Paese e le cui atrocità mostra senza sconti nelle immagini durante la sua testimonianza. «Non mi sarei mai aspettato che la Siria arrivasse a questo punto dopo secoli di convivenza - commenta -. Ma ancora adesso i rapporti tra cristiani e musulmani in tante situazioni sono buoni. Quando è stata uccisa mia figlia i nostri amici hanno pregato per lei in moschea. E 40 giorni dopo alla liturgia di suffragio in chiesa c’erano più musulmani che cristiani. Siamo tutti vittime della stessa oppressione». 
Gli chiediamo dei cristiani di Aleppo, quanti sono rimasti oggi? «In una città di quattro milioni di persone, come era Aleppo fino al 2011, i cristiani erano 300 mila - risponde -. Gli ultimi dati parlano di appena 22mila cristiani rimasti. Perché fuggono? Non c’è più luce, pane, acqua, possibilità di scaldarsi. Un litro di gasolio costava un euro, oggi ne costa quattro». Sull’embargo non ha dubbi: come avveniva in Iraq colpisce solo i più poveri, favorisce il mercato nero e aggrava le sofferenze.  

Che cosa si può fare per aiutare la Siria? Risponde che la prima cosa è pregare. Ma ce n’è anche una seconda: «Uscire dall’indifferenza - ammonisce -. Noi cristiani non possiamo accontentarci di vivere tranquillamente la nostra vita. Dobbiamo ascoltare la voce di Gesù che dice: avevo fame, avevo sete… Siamo chiamati a uscire dall’indifferenza per un nuovo Esodo. Uscire da sé per andare verso gli altri: la paura oggi è il peccato più grave». 

Non vorrebbe parlare di politica, ma è inevitabile arrivarci. «Che cosa servirebbe? Mettere fine alla guerra. Basterebbe una comunità internazionale con onestà e coscienza. Invece i cristiani d’Oriente valgono meno di un barile di petrolio oggi…», commenta con amarezza. «Bashar al Assad non è un angelo e anche Putin ha i suoi interessi - spiega Claude Zerez -. Ma l’Oriente è diverso dall’Occidente, il concetto di cittadinanza non c’è. Qui viene prima l’etnia, poi la religione e solo dopo la nazionalità. Ciò che oggi vogliono i siriani è uno Stato che li protegga e faccia valere la legge. Senza, faremmo la fine della Libia». 

Descrive nel dettaglio gli orrori che lo Stato islamico sta seminando in Siria. Parla della sfida più difficile: «Quale domani per i bambini che gli uomini con le bandiere nere oggi educano a uccidere?». Ma parla anche della vita che continua, delle associazioni caritative che nel momento della prova aiutano tutti senza fare distinzioni. Della tomba di padre Frans van der Lugt, il gesuita olandese ucciso a Homs nell’aprile 2014, «veneratissima da tutti, cristiani e musulmani». 
Indica una strada. Alla politica il compito di raccoglierla.  

sabato 26 settembre 2015

Sako: "Vanno via le forze migliori, le uniche che potevano tentare di ricostruire ciò che è stato distrutto in questi anni".


Il Patriarca caldeo Louis Raphael I sui rifugiati in fuga verso l’Europa: «In questo momento è irresponsabile ogni dichiarazione che adesso possa avere l’effetto di incitare la nostra gente a emigrare»


Vaticaninsider, 14-09-2015
GIANNI VALENTE

«Adesso la nostra gente ci critica. Vogliono che noi troviamo per loro gli aerei, i visti per partire e anche le case di accoglienza nei Paesi europei. Questo è impossibile. Uno Stato non può farlo. E non può farlo neanche la Chiesa». Si dice preoccupato Louis Raphael I, Patriarca caldeo di Baghdad. Non lo convincono nemmeno certe ricadute della nuova politica europea verso i profughi in fuga dalla Siria e da altri scenari di guerra. Una mobilitazione in cui pure sono state coinvolte anche tante Chiese sorelle del Vecchio Continente. Perplessità a preoccupazioni che sente di condividere con tanti altri pastori delle Chiese d’Oriente.

Come vede le ultime mosse della comunità internazionale riguardo al Medio Oriente? Si muove finalmente qualcosa?
«Venerdì scorso mi sono incontrato alla cattedrale caldea con tutti i capi delle Chiese presenti a Baghdad, insieme a tante suore e sacerdoti. Ci chiediamo come mai accade ora tutto questo, dopo 4 anni di guerra in Siria e dopo 12 di conflitti e stragi in Iraq. Dopo che la situazione si è lasciata incancrenire per così tanto tempo. C’è qualcosa di enigmatico in questa dinamica. Sono preoccupato».

Si riferisce alla questione dei rifugiati? La preoccupa chi apre le porte o chi le chiude?
«La questione non si può affrontare in materia sentimentale e superficiale. Serve un discernimento. Le soluzioni durevoli sono solo quelle che si possono realizzare sul posto. Soluzioni che richiedono tempo, e la pazienza di avviare e accompagnare i processi. Ma questo non sembra interessare ai capi delle nazioni e agli organismi internazionali. Preferiscono operare sull’onda delle emozioni suscitate nell’opinione pubblica».  

C’è chi suggerisce di accogliere prima i profughi cristiani e quelli delle minoranze religiose perseguitate. È una buona idea?
«Questo non si può fare. Diventerebbe un problema anche per noi. Alimenterà tutti quelli che dicono che vogliono dare una giustificazione religiosa alle guerre. Quelli che da una parte e dall’altra dicono che qui i cristiani non possono stare. I Paesi europei devono accogliere chi ha veramente bisogno, senza guardare la religione. E devono evitare di agire alla cieca. E di favorire chi gioca sempre con la pelle dei cristiani».

A cosa allude?
«Esistono agenzie e gruppi che aiutano i cristiani a andar via. Hanno proprio come missione quella di aiutare l’esodo dei cristiani. Lo finanziano. Lavorano per spingere i cristiani a lasciare i propri Paesi, e lo dicono apertamente, presentandola come un’opera a favore dei perseguitati. Non so quale strategia perseguano.
Forse, quando questi Paesi saranno vuoti dell’intralcio dei cristiani, sarà più facile scatenare nuove guerre, vendere e sperimentare nuove armi. Bisogna studiare questi fenomeni, altro che chiacchiere».

Ma è possibile fermare padri e madri di famiglia che vogliono dare una speranza di futuro dei loro figli?
«Noi non fermiamo nessuno. Sarebbe ingiusto, oltre che impossibile. Ma non possiamo neanche spingerli a fuggire. Adesso la nostra gente ci critica. Vogliono che portiamo gli aerei, i visti e che gli troviamo le case di accoglienza negli altri Paesi. Questo è impossibile. Uno stato non può farlo. E non può farlo neanche la Chiesa.  Una comunità cristiana che è nata in queste terre non può mettersi a organizzare i viaggi dell’esodo che segnerà la sua estinzione. La scelta di partire possiamo rispettarla come scelta personale, ma non possiamo istigarla noi».
Cosma e Damiano, i due santi medici "anargiri" 
ricordati oggi 26 settembre nel santorale,
furono sepolti in una splendida basilica
in Cyrro (NE di Aleppo)


Quindi c’è chi chiede alle chiese stesse di organizzare la fuga di massa...
«Vuol dire che adesso c’è davvero il pericolo che nessun cristiano rimarrà in Medio Oriente, in Iraq, in Siria. In questo momento è irresponsabile ogni dichiarazione che adesso possa avere l’effetto di incitare la nostra gente alla fuga. Non si può parlare senza tener conto di tutti i fattori, delle possibili conseguenze e di come le nostre parole possono essere interpretate».

Secondo alcuni, l’apertura improvvisa agli immigrati risponde anche a calcoli economici. Davvero c’è in ballo anche questo?
«Sento dire che vogliono giovani, che non vogliono i vecchi e i malati. E su questa linea convergono governi di destra e di sinistra. C’è qualcosa di strano. Io posso confermare che non vanno via solo gli sfollati. I preti mi raccontano che sta andando via anche chi economicamente non sta messo male, magari ha il lavoro in banca. Gente che non avrebbe bisogno. Sentono che adesso si è aperta un’occasione, temono che presto questa finestra si chiuderà, e ne approfittano. Mentre quelli davvero più poveri non ci pensano a andar via.  È una perdita per tutti. Vanno via le forze migliori, le uniche che potevano tentare di ricostruire ciò che è stato distrutto in questi anni. E questo riguarda noi cristiani in maniera particolare. I cristiani con la convivenza, con la loro apertura e la loro umanità, potevano avere un ruolo decisivo nella terra dove sono nati e sono sempre vissuti i loro padri. Potevano anche col tempo aiutare i loro concittadini musulmani a liberarsi dell’ideologia jihadista che fa tanto soffrire anche loro. Noi abbiamo aperto chiese, ma anche scuole, ambulatori e ospedali. C’è una rete di realtà che per tanto tempo ha contribuito realmente a migliorare la convivenza e le vita sociale della collettività, offrendo un servizio a tutti. Adesso anche tutto questo è destinato a spegnersi». 

Lei, nell’ultimo anno, ha lottato nella sua Chiesa contro il fenomeno dei preti e dei religiosi che emigravano in Occidente senza il consenso del proprio vescovo…
«I preti e i religiosi che scappano dal Medio oriente sono “emigranti di lusso”. Approfittano del loro status, delle conoscenze e degli appoggi ecclesiastici per scappare, presentandosi come perseguitati e sfruttando questa etichetta per guadagnare anche soldi. A volte, c'è chi con la parola-chiave della persecuzione riesce a mettere in piedi un “business” redditizio e sacrilego.  Molti di loro sono scappati da zone sicure, dove non c’era nessuna persecuzione, e poi hanno aiutato anche tutta la loro famiglia a trovare una bella sistemazione comoda magari in Nord America. Senza l’autorizzazione del proprio vescovo, e tradendo lo spirito del buon pastore».

Ma servono pastori anche nelle comunità dei cristiani mediorientali emigrati in Occidente…
«I vescovi che seguono le comunità della diaspora non possono venire a “rubare” i preti in Medio Oriente. Che li cerchino nelle loro comunità, che loro dicono essere così fiorenti. Se abbiamo abbracciato il sacerdozio in queste terre, la nostra vita è già data al Signore, e non dobbiamo pensare a cercare il lusso per il nostro clan familiare. Questi “emigranti di lusso” hanno dato il cattivo esempio al popolo. Il nostro sacerdozio va speso qui dove la gente soffre. Per stare accanto a loro, mostrare che anche qui, in questa situazione, è possibile vivere la gioia del Vangelo».

Di recente, avete denunciato la sottrazione illecita di case e terreni appartenenti ai cristiani andati via. E questo non solo nelle terre finite sotto il Califfato…
«Le aree sotto il Daesh non vengono liberate. Forse questo fa comodo a qualcuno. Intanto, adesso, anche a Baghdad e a Kirkuk  le case e le terre dei cristiani vengono illecitamente espropriate. C’è il rischio di veder alterati per sempre gli equilibri demografici in quelle zone.  Ci vuole un’azione internazionale per imporre che siano rispettati anche i diritti e le proprietà di chi è stato costretto con la forza a andar via e magari pensa di tornare. L’Onu si dovrebbe occupare di queste cose».

Esiste una via per uscire dal supplizio del Medio Oriente?
«L’ho detto all’incontro della Comunità di Sant’Egidio a Tirana, e poi anche a Parigi, alla conferenza organizzata dall’Œuvre d’Orient: Non c’è nessun “bottone magico” che si può schiacciare per risolvere tutto in un momento. Ci vorrà chissà quanto tempo per provare a risanare una situazione così devastata.
Per sconfiggere l’ideologia jihadista occorre coinvolgere le autorità musulmane e i governi arabi. Invece i circoli del potere occidentale hanno sostenuto proprio le forze e gli Stati dove i jihadisti hanno sempre trovato più appoggi. Adesso, riguardo ai rifugiati, si fa leva sul senso di umanità che fortunatamente ancora esiste in tante persone. Ma intanto vengono oscurate le connivenze e le protezioni di cui hanno goduto i jihadisti, i flussi di soldi e di armi. Hanno iniziato dal 2003 le guerre contro il terrorismo e per la democrazia, e il risultato è che è nato questo mostro del Daesh. Vorrà pur dire qualcosa».

mercoledì 15 luglio 2015

Intervista al Patriarca siro-ortodosso Aphrem II: "Ci sono forze che alimentano Daesh con armi e denaro, perché serve utilizzarlo nella 'guerra a pezzi'”

«All’Occidente chiedo solo: smettetela di armare i nostri carnefici»



VaticanInsider , 29 giugno 2015
di GIANNI VALENTE

«Quando guardiamo i martiri, vediamo che la Chiesa non è soltanto una, santa, cattolica e apostolica. Nel suo cammino nella storia, la Chiesa è anche sofferente». 
Per Moran Mor Ignatius Aphrem II, Patriarca di Antiochia dei siro-ortodossi, nel martirio si rivela un tratto essenziale della natura della Chiesa. Una connotazione che si potrebbe aggiungere a quelle confessate nel Credo, e che accompagna sempre coloro che vivono nelle vicende del mondo a imitazione di Cristo, come suoi discepoli. Un tratto distintivo che adesso riaffiora con nettezza in tante vicende dei cristiani e delle Chiese del Medio Oriente.
Anche in questi giorni il Patriarca Aphrem – che lo scorso 19 giugno aveva incontrato a Roma Papa Francesco – si è trovato coinvolto nelle nuove tribolazioni che affliggono il suo popolo. L’ultima sua missione pastorale, appena conclusa, l’ha compiuta a Qamishli, la sua città natale, dove è andato a trovare le migliaia di nuovi profughi cristiani fuggiti davanti all’offensiva compiuta dai jihadisti dello Stato Islamico contro il vicino centro urbano di Hassakè, nella provincia siriana nord-orientale di Jazira.
Santità, quale è la connotazione propria del martirio cristiano?
«Gesù ha sofferto senza motivo, gratuitamente. A noi, che seguiamo Lui, può accadere lo stesso. E quando accade, i cristiani non organizzano rivendicazioni per protestare “contro” il martirio. Anche perché Gesù ha promesso che non ci lascia soli, non ci fa mancare il soccorso della sua grazia, come testimoniano i racconti dei primi martiri e anche dei martiri di oggi, che vanno incontro al martirio con il volto lieto e la pace nel cuore. Lo ha detto Cristo stesso: beati voi, quando vi perseguiteranno a causa mia. I martiri non sono persone sconfitte, non sono discriminati che devono emanciparsi dalla discriminazione. Il martirio è un mistero di amore gratuito».
Eppure tanti continuano a parlare del martirio come un’anomalia da cancellare, o un fenomeno sociale da denunciare, contro cui mobilitarsi e alzare la voce. 
«Il martirio non è un sacrificio offerto a Dio, come quelli che si offrivano agli dèi pagani. I martiri cristiani non cercano il martirio per dimostrare la loro fede. E non spargono volontariamente il proprio sangue per acquistare il favore di Dio, o acquisire qualche altro guadagno, fosse pure quello del Paradiso. Per questo la cosa più blasfema è quella di definire come “martiri” i kamikaze suicidi».
In Occidente molti ripetono che bisogna fare qualcosa per i cristiani del Medio Oriente. Serve un intervento armato?
«All’Occidente, per difendere i cristiani e tutti gli altri, non chiediamo interventi militari. Ma che piuttosto la smettano di armare e appoggiare i gruppi terroristi che stanno distruggendo i nostri Paesi e massacrando i nostri popoli. Se vogliono aiutare, sostengano i governi locali a cui servono eserciti e forze sufficienti per mantenere la sicurezza e difendere i rispettivi popoli da chi li attacca. Occorre rafforzare le istituzioni statali e renderle stabili. E invece, vediamo che in tanti modi si fomenta dall'esterno la loro dissoluzione forzata.
Prima del suo viaggio recente in Europa, Lei con i vescovi della Chiesa siro-ortodossa avete incontrato il Presidente Assad. Cosa vi ha detto?
«Il presidente Assad ci ha esortato a fare il possibile affinché i cristiani non vadano via dalla Siria. “So che soffrite” ha detto “ma per favore non lasciate questa terra, che è la vostra terra da millenni, da prima che arrivasse l’Islam”. Ci ha detto che serviranno anche i cristiani, quando si tratterà di ricostruire il Paese devastato».
Assad vi ha chiesto di portare qualche messaggio al Papa?
«Ci ha detto di chiedere che il Papa e la Santa Sede, con la sua diplomazia e la sua rete di rapporti, aiutino i governi a comprendere quello che sta davvero accadendo in Siria. Li aiutino a prendere atto di come stanno davvero le cose».
Alcuni circoli occidentali accusano i cristiani d’Oriente di essere sottomessi ai regimi autoritari.
«Noi non siamo sottomessi ad Assad e ai cosiddetti governi autoritari. Noi, semplicemente, riconosciamo i governi legittimi. I cittadini siriani in larga maggioranza appoggiano il governo di Assad, e lo hanno sempre appoggiato. Noi riconosciamo i legittimi governanti, e preghiamo per loro, come ci insegna a fare anche il Nuovo Testamento. 
E poi vediamo che dall’altra parte non c’è una opposizione democratica, ma solo gruppi estremisti. Soprattutto, vediamo che questi gruppi negli ultimi anni usano una ideologia venuta da fuori, portata da predicatori dell’odio venuti e sostenuti dall’Arabia Saudita, dal Qatar o dall’Egitto. Sono gruppi che ricevono armi anche attraverso la Turchia, come abbiamo visto anche dai media».
Ma cosa è davvero lo Stato Islamico? È il vero volto dell’Islam, o un’entità artificiale utilizzata per giochi di potere?
«Lo Stato Islamico (Daesh) non è certo l’Islam che abbiamo conosciuto e con cui abbiamo convissuto per centinaia di anni. Ci sono forze che lo alimentano con armi e denaro, perché serve utilizzarlo in quella che Papa Francesco ha definito la “guerra a pezzi”. Ma tutto questo si serve anche di un’ideologia religiosa aberrante che dice di richiamarsi al Corano. E può farlo perché nell’islam non esiste una struttura d’autorità che abbia la forza di fornire un’interpretazione autentica del Corano e sconfessare con autorevolezza questi predicatori di odio. Ogni predicatore può dare la sua interpretazione letterale anche dei singoli versetti che appaiono giustificare la violenza, e in base a questo emanare le fatwa senza essere smentito da qualche autorità superiore».
Lei ha citato la Turchia. Le autorità turche premono per far tornare sul proprio territorio la sede del Patriarcato siro-ortodosso, che per alcuni secoli era stata collocata vicino a Mardin. Cosa farete?
«Il nostro Patriarcato porta il titolo di Antiochia. E quando è sorto, Antiochia faceva parte della Siria. Era la capitale della Siria di allora. Le nostre antiche chiese in Turchia hanno per noi un grande valore storico, ma stiamo e resteremo a Damasco, che è la capitale della Siria di oggi. È una nostra scelta libera, e nessuna pressione di governi o parti politiche ce la farà cambiare. Abbiamo dato il nome alla terra che ancora oggi si chiama Siria. E non ce ne andremo».
Le sofferenze vissute insieme dai cristiani in Medio Oriente quali effetti hanno nei rapporti ecumenici tra le diverse Chiese e comunità?
«Quelli che uccidono i cristiani non fanno distinzioni tra cattolici, ortodossi o protestanti. Lo ripete sempre anche Papa Francesco, quando parla dell’ecumenismo del sangue. Questo non lascia le cose come stanno. Vivere insieme in queste situazioni ha l'effetto di avvicinarci, di farci scoprire la sorgente della nostra unità. I pastori si ritrovano come fratelli nella stessa fede, e possono prendere insieme decisioni importanti. Per esempio, sarà importante arrivare a decidere una data comune per celebrare la Pasqua. E davanti alle tribolazioni del popolo di Dio, che soffriamo insieme, i contrasti sulle questioni di potere ecclesiastico si rivelano come cose irrilevanti».
Cosa manca per vivere la piena comunione sacramentale?
«Dobbiamo confessare insieme la stessa fede e chiarire prima i punti dottrinali e teologici dove ancora risultano esserci delle differenze. Ma devo dire che su questo punto noi cristiani siri siamo già avanti, perché già c’è l'accordo sull'ospitalità reciproca tra siri ortodossi e siri cattolici. Quando un fedele non ha modo di partecipare alla liturgia e ricevere i sacramenti presso la propria Chiesa, può partecipare alla liturgia nei luoghi di culto dell'altra Chiesa. E può avvicinarsi anche all'eucaristia».


Lei ha preso parte da poco a un convegno promosso a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio sul Sayfo, il Genocidio dei cristiani siriaci compiuto dai Giovani Turchi nello stesso tempo in cui avvenne il Genocidio armeno. Perché tenete così tanto a ricordare quelle vicende dolorose?
«A Qamishli, quando ero bambino, la sera andavo spesso in chiesa un’ora prima della preghiera. Mi sedevo tra gli anziani e ascoltavo le loro storie. Molti di loro erano sopravvissuti al Sayfo. Parlavano di famiglie lacerate, di bambini strappati ai genitori e affidati ai musulmani. Vedevo che, per loro, parlare di quelle vicende tremende era anche un modo per liberarsi da quel male che pesava sui loro cuori. Ma per tanto tempo non è stato possibile parlare pubblicamente di questo. Negli ultimi anni, quando le Chiese hanno iniziato a commemorare pubblicamente quei tragici eventi, tante persone hanno potuto sentire storie che erano sepolte nella memoria familiare come un tabù, qualcosa che non si doveva neanche nominare. E per loro è stata una specie di liberazione. 
Come Chiese, quando parliamo del Sayfo, non abbiamo altro scopo che favorire questa riconciliazione interiore. E i nostri amici turchi dovranno prima o poi capirlo: far memoria di quei fatti non è per noi un pretesto per andare contro di loro, ma può aiutare anche loro a comprendere il loro passato e riconciliarsi con esso». 

lunedì 25 maggio 2015

"Ci vogliono morti, ma noi rimarremo qui, con la nostra gente": voce unanime dei religiosi da Damasco e da Aleppo


Intervista a don Alejandro Leon, salesiano di Damasco


Don Alejandro si occupa di un centro giovanile a Damasco e come tutti i religiosi di Siria è in mezzo ai suoi fedeli anche in queste ore difficili in cui i miliziani di Isis sembrano avvicinarsi minacciosamente alla capitale.

ilsussidiario.net. 

Don Leon, lei conosceva di persona il sacerdote rapito, padre Murad?
Non di persona, ma il suo nome era noto. Il suo prodigarsi per i suoi fedeli e non solo era ben noto in Siria.

Ha idea di chi ci sia dietro a questo rapimento?
No, non ho idea, ma in Siria non vengono rapiti solo i preti, i cristiani siriani rischiano la vita ogni giorno, siamo tutti in pericolo allo stesso modo. E' una situazione di pericolo, la nostra, che vive tutto il popolo.

Dopo la caduta di Palmira la situazione è ancora più difficile. La gente fugge di casa?
Sì, tanta gente fugge. Tutto il nord, tutta la zona di Aleppo è nelle mani dell'Isis e tutti sappiamo cosa fa questa gente quando conquista una città, uccide e fa violenze terribili. Quando si avvicinano a un villaggio è logico che la gente fugga, ha paura di essere uccisa. 

Adesso si sono avvicinati ulteriormente a Damasco. Come vivete questa situazione?
Con tanta paura. Ci sono sempre più missili che arrivano sulla città, armi sempre più potenti, i miliziani dispongono, è evidente, di armi nuove e sempre più distruttive. 

Il rapimento di padre Jacques che si era rifiutato di lasciare la sua comunità, riporta in primo piano la testimonianza di voi religiosi in Siria.
Non è nulla, è il minimo che possiamo fare. Quella che voi chiamate testimonianza da parte di noi religiosi in Siria, è solo il minimo che possiamo fare, è un obbligo con la nostra coscienza di religiosi, con l'impegno che abbiamo preso. Come cristiani prima che come religiosi, noi rimarremo qui, con la nostra gente. 

Vi sentite abbandonati dall'occidente?
Sappiamo che c'è tanta gente che ci accompagna, con la preghiera e l'aiuto economico, tante persone preoccupate per noi, ma da voi in occidente c'è anche tanta disinformazione, tanta manipolazione delle notizie.

In che senso?
Chi ha il potere in occidente manipola l'informazione e non dice la realtà di quello che succede qui. 

Cosa vorreste che si dicesse?
Semplicemente la verità: che i governi occidentali continuano ad appoggiare e aiutare la gente sbagliata.

Intende che l'occidente avrebbe dovuto appoggiare Assad?
Esattamente, con lui la situazione non era certo questa, la libertà religiosa era rispettata. I governanti occidentali dovrebbero togliere le sanzioni contro di lui, ad esempio.

Come vivono i cristiani di Damasco questa situazione?
Non è uguale per tutti, non tutti sanno vivere queste prove che sono molto forti. Il centro giovanile di cui mi occupo ospita circa 650 ragazzi e non c'è uno di loro che non abbia perso almeno un parente o un vicino di casa. Tutti sono toccati dalla guerra e c'è chi vive crisi di fede. Ma in generale questa situazione ci ha spinti a essere più autentici, a cogliere maggiormente l'essenziale, che vuol dire Cristo. Tanta gente soffre duramente, ma la comunità cristiana adesso ha una fede più forte, il sentimento che prevale è la testimonianza di fede del popolo che è molto forte. 

Cosa vorrebbe dire ai cristiani d'occidente?
Io ringrazio di cuore tutti, perché so che tanta gente con la preghiera e gli aiuti che ci possono inviare sono con noi. Ma bisognerà che questa testimonianza, anche se so che è molto difficile, questo sentimento popolare arrivi a chi ha il potere.
 I vostri governanti appoggiano la parte sbagliata, continuano a vendere armi o a comprare il petrolio di contrabbando perché più economico. Qualcuno in occidente lo compra e questi sono soldi che servono per uccidere i cristiani di qui. Se il vostro popolo facesse la voce più forte per noi sarebbe una grande cosa.



Antoine Audo SJ, Vescovo caldeo di Aleppo: 

a orchestrare l’espulsione dei cristiani dal Medio Oriente sono i Paesi della regione da sempre allineati con l’Occidente


VATICAN INSIDER, 
Intervista di gianni valente

«Forse rimarremo in pochi. Ma rimarremo. Anche se ci imporranno di pagare la Jizya, la tassa di sottomissione». È vescovo nella città martire di Aleppo, il gesuita Antoine Audo. E vescovo della Chiesa caldea, la comunità cattolica orientale più decimata dall'emorragia di fedeli innescata dalle convulsioni mediorientali degli ultimi decenni.


Lei ha detto che nei conflitti in Medio Oriente c'è chi usa anche le sofferenze dei cristiani per nascondere le dinamiche reali delle guerre.
L'allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista.
In certi ambienti c'è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell'Occidente nei confronti dell'islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa.
Dall'altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l'ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l'idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l'una con l'altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione. In Siria non era così. E anche adesso è falso presentare il conflitto siriano come una guerra tra cristiani e musulmani. Ma è questo il messaggio che vogliono far passare, perché fa comodo a tutti.

Il tema della persecuzione dei cristiani viene strumentalizzato nelle strategie geopolitiche?
I Paesi che ho citato sono gli unici che si muovono nella prospettiva di “ripulire” il Medio Oriente dai cristiani autoctoni. Il wahhabismo poi collega il cristianesimo alla modernità, all'eguaglianza dei diritti e al principio di cittadinanza. Tutte cose che loro rifiutano.
Eppure proprio quei Paesi sono gli alleati storici dell'Occidente nella regione. E i circoli occidentali che fanno propaganda e mobilitazione permanente sul tema della persecuzione dei cristiani si accordano splendidamente con la loro strategia. E intanto usano il tema della persecuzione dei cristiani per spingere le loro opinioni pubbliche a giustificare i loro nuovi interventi armati nella regione e aumentare la paura verso gli islamici.
Dicono che le guerre servono per difendere i cristiani. Così cercano di motivare la loro presenza nella regione. Una cosa che non era successa ai tempi delle guerre nel Golfo, quando Papa Wojtyla non aveva dato nessuna sponda a chi voleva presentare gli interventi a guida Usa come nuove Crociate.

Però anche capi delle Chiese cristiane d'Oriente hanno applicato alle sofferenze attuali dei cristiani la definizione di “genocidio”.
Certe affermazioni vanno messe nel contesto del Centenario del Genocidio degli armeni e del Genocidio assiro. In molti siamo ancora segnati da quelle vicende. Anche il mio bisnonno è morto in Turchia in quei massacri, e il resto della famiglia si salvò trovando rifugio a Aleppo. Ci viene spontaneo parlare di Genocidio, anche esagerando. Ma un modo per dire che abbiamo paura. Temiamo che possa riaccadere quello che abbiamo già visto accadere.

Servono a qualcosa le mobilitazioni, o le richieste di interventi internazionali?
Per quattro anni ho ripetuto instancabilmente che l'unica via d'uscita era la soluzione politica del conflitto, che potesse aprire la via alla riconciliazione. Ma ora mi sembra sempre più chiaro che c’è una agenda per distruggere il Paese, spezzettarlo su base settaria senza mettere in conto la permanenza dei cristiani, che devono solo andare via. Questo è il messaggio che ci arriva adesso.

Domenica 24 maggio, una bomba ha colpito l'Arcivescovado siro-ortodosso di Aleppo, danneggiando la preziosa biblioteca del Vescovo Mar Gregorios Yohanna Ibrahim, rapito il 22 aprile 2013 (foto Jamil Diarbakerli)

Stavolta, come ne uscirete?
Come Chiesa faremo di tutto per rimanere. Anche se dovessimo vivere sotto il potere dei jihadisti e pagare la Jizya, la tassa di sottomissione. Quelli che vogliono partire, partiranno. Ma un piccolo gruppo resterà. I vecchi, i poveri, i sacerdoti, i religiosi. Continueremo in ogni modo a confessare la nostra fede nel nostro Paese, nella condizione data. Anche se si consolidasse il regime del Califfato. Rimarremo lì, e vedremo cosa succede. Possiamo provare a trovare una soluzione, un modo per andare avanti, come abbiamo già fatto nella storia. Non è la prima volta. Questo è il mistero della Chiesa, che nel mondo rimane inerme. E la sua forza non consiste mai negli interventi e nei sostegni esterni. 

Ci sono organizzazioni che aiutano i cristiani a andar via. E il Patriarca caldeo è da tempo in conflitto con alcuni preti che sono emigrati in America senza il consenso dei superiori, dicendo che erano minacciati di morte certa.
Io rispetto le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per i sacerdoti è diverso. Chi ha delle responsabilità nella Chiesa e va via, lo fa perché sceglie la soluzione più comoda. Se poi si giustifica presentandosi come vittima della persecuzione, questo è anche oltraggioso nei confronti dei veri perseguitati.