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mercoledì 29 gennaio 2020

La Quaresima anticipata dei siriani


Testimonianza di mons. Samir Nassar, arcivescovo maronita di Damasco, inviata ad AsiaNews che testimonia le drammatiche condizioni in cui versa la popolazione siriana. Quasi nove anni di guerra civile, le violenze dei gruppi jihadisti (da al-Nusra allo Stato islamico) che hanno insanguinato gran parte del territorio, l’emergenza profughi, le sanzioni internazionali contro Damasco e la crisi delle banche libanesi hanno messo in ginocchio il Paese. E i più colpiti, osserva mons. Nassar, sono “soprattutto i più fragili, i malati, i bambini e gli anziani“


Dall’austerità alla povertà
Immaginate che la vostra famiglia debba sopravvivere con un salario che è diminuito almeno del 50% in tre mesi. Uno scenario caotico che stravolge l’esistenza, che ha fatto innalzare in maniera vertiginosa i prezzi e che finisce per colpire la vita quotidiana di tutte le famiglie, in particolare modo quelle più povere e modeste. 
Infatti, l’inflazione vertiginosa e l’impennata dei prezzi si ripercuotono su cittadini che già vivono in condizioni di austerità, facendo sperimentare loro povertà e una grande miseria. 
La mancanza di carburante, del gas per uso domestico e della corrente elettrica, hanno fatto precipitare i più vulnerabili - soprattutto i più fragili, i malati, i bambini e gli anziani - nella più completa oscurità. Un dramma acuito dalle temperature glaciali, i cui effetti possono essere letali.  

Carità congelata
La crisi bancaria del Libano ha di fatto bloccato i conti correnti dei siriani, sia quelli dei privati cittadini che delle imprese. Fra queste ultime sono comprese anche le associazioni caritative, che oggi sono costretti a dichiararsi incapaci di operare in un contesto contraddistinto da profonde ed enormi difficoltà. Sono giorni di miseria. 
Oggi non è più possibile far fronte alle esigenze di base e ai bisogni primari e i poveri sono abbandonati a loro stessi e al loro triste destino. I loro miseri risparmi sono bloccati o congelati negli istituti bancari, pressoché inaccessibili.
Le condizioni socio-economiche della popolazione si fanno ogni giorno di più urgenti e drammatiche, e rischiano di aggravarsi ancora di più anche e soprattutto per il braccio di ferro in atto fra Iran e Stati Uniti. Uno scontro frontale che blocca la strada ai vari “Simone di Cirene” che cercano di portare aiuto, e impediscono di fatto qualsiasi forma di compassione, lasciando aperta la via dell’escalation e a un peggioramento ulteriore della situazione. 

Quaresima anticipata
Questa crisi mai vista prima, nemmeno durante gli anni della guerra, getta i nostri fedeli in un tempo di digiuno e di Quaresima anticipato. Assicurare il pane quotidiano e un po’ di cibo sulle tavole è diventato l’incubo ricorrente di ogni giornata. Questa condizione del tutto nuova ha impoverito la Chiesa stessa, un “muro del pianto” dove ciascuno viene per piangere lacrime, gridare aiuto, cercare senza ostentarlo e nel silenzio più assoluto un po’ di consolazione. Un modo per vivere la passione di Cristo ben prima della Settimana Santa.
Sta emergendo sempre più una nuova vocazione con i colori delle Beatitudini e fondata sull’amore, sul perdono, sulla condivisione, sulla compassione. Una vocazione che è illuminata dalla luce della speranza della Pasqua.

Quaresima 2020


Risultati immagini per Siria miseria
«Dopo la guerra delle armi, ora combattiamo la guerra della fame»
Intervista di Rodolfo Casadei a padre Ibrahim Alsabagh
TEMPI, 29 gennaio 2020

«Non è vero che la guerra ad Aleppo è finita tre anni fa. Mentre io sono qui in Italia, cadono razzi e bombe lanciati dai ribelli su Jamiet al-Zahra e Hamdaniya, i due quartieri più occidentali della città. Nel corso di questo mese sono morte già 12 persone e vari edifici sono stati distrutti. È il modo con cui i jihadisti si vendicano dell’offensiva governativa nell’Idlib, da dove non lasciano uscire i civili che vorrebbero trasferirsi in luoghi più sicuri, e invece cadono vittime del fuoco incrociato». Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della parrocchia latina di Aleppo, è in Italia per sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che le sofferenze dei siriani e le traversìe dei cristiani non sono affatto finite, anche se i media europei si occupano ormai di altre crisi internazionali: Libia, Iran, ecc.

Gas e elettricità
«Stiamo combattendo contro due mostri: il freddo e il carovita», esordisce. «Il gasolio per il riscaldamento scarseggia a causa delle sanzioni contro la Siria e contro l’Iran, solo in alcune zone della città si riesce ad acquistare quello del governo a prezzo calmierato, che è circa la metà del prezzo di mercato. Per le bombole del gas da cucina bisogna fare la fila dalle 5 di mattina, e magari si riesce a fare l’acquisto alle 11. C’è gente che si fa pagare per tenere il posto nella coda a chi non può stare lì tutta la mattina dall’alba. L’elettricità va e viene in modo del tutto irregolare anche nei quartieri più centrali di Aleppo come il nostro: ciò provoca cortocircuiti e incendi. La città continua ad essere economicamente soffocata perché continua a non disporre più del suo hinterland: a nord ci sono i territori controllati dai turchi e dai curdi, a ovest c’è la regione dell’Idlib dove i governativi combattono contro i jihadisti. L’autostrada che collegava Aleppo al sud del paese continua ad essere impraticabile: adesso è sotto il fuoco dell’esercito, che cerca di riconquistarla da anni. A questi problemi di vecchia data si è aggiunta la crisi del Libano: per tutti gli anni della guerra è stato un polmone per la Siria, tanti avevano spostato lì i loro conti bancari e attività finanziarie per aggirare le sanzioni. Ma da quando sono iniziate le proteste di piazza, anche il sistema bancario libanese è andato in difficoltà: le banche restano chiuse per giorni a causa delle manifestazioni, e quando sono aperte non permettono di prelevare più di 1.000 dollari alla settimana dai conti correnti bancari. Anche per chi deve aiutare i poveri e i bisognosi questo è diventato un grosso guaio».

La guerra della fame
L’insieme di tutti questi problemi, ai quali vanno aggiunti i contrasti fra il presidente e l’uomo d’affari più ricco del paese, suo cugino Rami Makhlouf, hanno provocato una forte svalutazione della lira siriana, che negli ultimi dodici mesi ha perduto metà del suo valore rispetto al dollaro, e nelle sole due prime settimane di gennaio 2020 il 33 per cento, col cambio che passava da 900 a 1.250 lire siriane per un dollaro. «Il governo ha arrestato alcuni speculatori e ha aumentato alcuni stipendi, ma non abbastanza da restituire il potere d’acquisto dei salari eroso dall’inflazione», riprende padre Ibrahim. «Ormai i siriani parlano di “guerra della fame” che ha preso il posto della guerra con le armi, che si continua a combattere nell’Idlib e nelle campagne attorno ad Aleppo. Quasi la metà delle 580 famiglie della nostra parrocchia vive sotto la soglia della povertà assoluta: recentemente abbiamo tenuto una riunione di emergenza per deliberare l’acquisto e il dono di 100 litri di gasolio a 250 nostre famiglie che altrimenti morirebbero letteralmente di freddo. Altre risorse importanti vanno alle cure mediche: è vero che in Siria funziona il progetto Ospedali Aperti per curare nelle cliniche private malati gravi che non hanno da pagare, ma ad Aleppo non c’è nessuno convenzionato per chi ha bisogno di chemioterapia, e la nostra gente dovrebbe andare a Damasco. Insieme ai pacchi alimentari periodici, ai pannolini e al latte in polvere per i neonati, queste sono le nostre spese principali».

Non dimenticatevi di noi
Padre Ibrahim conclude con un appello accorato: «Siamo riusciti a salire sopra l’onda che stava per travolgerci, grazie a Dio e a tutti quelli che ci hanno aiutato. Ma il momento decisivo per evitare che la presenza cristiana sia spazzata via da Aleppo viene adesso. Non dimenticatevi di noi».

giovedì 22 febbraio 2018

Ghouta come Aleppo, le verità impazzite

Parla padre Mounir di Damasco. «Ghouta non è un quartiere di vittime perseguitate dal regime. È l’esatto contrario. Sono anni che sparano missili sulla capitale, uccidono innocenti, poveri civili»

di Leone Grotti, 22 febbraio 2018

«Lo so cosa scrivono i media da voi in Italia e in tutto l’Occidente sulla guerra che si sta combattendo a Ghouta. Raccontano solo una faccia della medaglia, nessuno si preoccupa del nostro dramma». Si confida così a tempi.it padre Mounir, 34 anni, originario di Aleppo ma residente a Damasco, dove si occupa di un oratorio con oltre 1.200 giovani. Il salesiano fa riferimento ai durissimi scontri di questi giorni tra l’esercito del governo di Bashar al-Assad e le formazioni terroristiche che difendono Ghouta orientale, nella periferia della capitale. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani, organizzazione vicina agli estremisti, negli ultimi giorni sarebbero morte quasi 300 persone nel sobborgo.
«Nessuno però parla dei civili, tanti bambini, uccisi qui dai colpi di mortaio, anzi, dai missili che vengono sparati da Ghouta», continua il sacerdote. Molte scuole nei quartieri di Damasco più colpiti dall’artiglieria ribelle sono state chiuse per sicurezza, al pari di molti negozi. I colpi di mortaio, infatti, cadevano spesso vicini agli istituti e nelle ore di uscita dei ragazzi. Da settimane anche i salesiani hanno dovuto chiudere il loro centro: «Era troppo pericoloso. Noi abbiamo degli autobus che girano per la città e raccolgono i ragazzi per portarli al centro, dove giochiamo, studiamo, facciamo catechismo ma ora per prudenza li lasciamo a casa, perché per strada potrebbero essere colpiti dai missili».
Il bombardamento di Ghouta si è intensificato nell’ultima settimana, perché il governo prepara l’assalto finale per riprendere il quartiere. «Tutto il giorno si sentono gli aerei dell’esercito che sorvolano la capitale. Spero che l’attacco cominci presto e che la zona venga finalmente liberata, come è stata liberata Aleppo», continua padre Mounir, ricordando che «Ghouta non è un quartiere di vittime perseguitate dal regime, come raccontate voi. È l’esatto contrario. Sono anni che sparano missili sulla capitale, uccidono innocenti, poveri civili. Quanti sono i bambini morti qui di cui nessuno parla? Questi non sono l’opposizione, sono terroristi, vengono da ogni parte del mondo, e l’esercito siriano ha il diritto di difendere la dignità dei siriani e il paese».
Il prossimo mese la Siria entrerà nel suo ottavo anno di guerra e padre Mounir non si fida più delle trattative di pace condotte dalla comunità internazionale: «Non stanno risolvendo niente, parlano ma non fanno nulla». Il sacerdote è stato ordinato cinque anni fa a Torino, ma ha scelto di lasciare l’Italia e tornare a Damasco per «servire il mio popolo in difficoltà». In questi giorni, però, le sue attività sono limitate al minimo perché «il governo ha consigliato a tutti di non muoversi di casa, se non per attività strettamente necessarie, perché molte zone della capitale sono sotto tiro. Nonostante questo cerchiamo di stare vicini ai nostri ragazzi e alle nostre famiglie».
Pare Mounir ha vissuto in Italia, ma ora non riesce più a leggere i giornali nostrani: «Ho visto come date le informazioni: sempre parziali, sempre nascondendo una parte della verità, addirittura truccando le foto», continua. «Voi di Tempi siete tra i pochi che avete il coraggio di raccontare tutta la verità. Io lo so che il governo siriano non è costituito da santi né da angeli, c’è la corruzione come in tanti altri paesi. Però dovete capire che la maggioranza della popolazione siriana, che soffre come e più degli altri, si fida di questo governo, nonostante i suoi sbagli. Voi europei invece appoggiate i terroristi che colpiscono la gente innocente. Questo è inaccettabile e qualcuno deve dirlo».

Il conflitto nel Ghouta e la memoria corta dell’Occidente

nella foto a sinistra le vittime di questi ultimi 3 giorni nella capitale
Damasco, a destra le milizie che occupano Ghouta 
di Mauro Indelicato, 22 febbraio 2018

Spesso si afferma che in guerra la prima vittima è la verità, resa parziale da ogni parte e resa quasi del tutto strumentale dagli attori presenti sul campo; ma in realtà, ciò che ancor prima della verità viene tolto di mezzo da un determinato conflitto è la stessa memoria: tutto viene resettato, anche la stessa storia viene resa funzionale al racconto ed alla narrativa imposta da chi vince o da chi, invece, spera di vincere. La memoria corta è una delle piaghe che affligge l’informazione inerente il conflitto siriano; è vero che fanno male le bombe russe, così come quelle americane ed è altrettanto vero che a causare vittime civili spesso sono sia i kamikaze delle sigle jihadiste così come i raid dei governativi, pur tuttavia dimenticare cosa accaduto e come si è arrivati al fatidico numero sette nel conteggio degli anni di guerra siriana, appare operazione scellerata e, nella migliore delle ipotesi, frutto di disonestà intellettuale. A prescindere da ogni considerazione politica che si possa avere su Assad e sul suo governo, dimenticare che la Siria non è stata attraversata da una vera ‘rivoluzione’ ma invasa da orde di jihadisti, stranieri e non, fa perdere di vista ogni giudizio obiettivo sul conflitto.

Cosa è accaduto nel Ghouta Est tra il 2012 ed il 2013

Proprio come accaduto nella zona est di Aleppo, non appena il legittimo governo siriano si prepara a strappare un determinato territorio alle sigle jihadiste, si scopre che il paese arabo ha un numero di ospedali per abitanti tra i più alti al mondo ed una quantità di edifici scolastici da fare invidia anche ai paesi più industrializzati; nel Ghouta l’operazione volta a strappare dalle mani takfire gli ultimi brandelli di una Damasco che da cinque anni vive con lo spettro di razzi e missili lanciati verso il centro, è iniziata da pochi giorni ma già nel mondo dell’informazione occidentale circolano gli stesso video visti e rivisti per Aleppo e per Homs, dove i raid russi e siriani vengono dipinti come brutali mezzi in grado di distruggere ogni volta strutture ospedaliere ed obiettivi sensibili.   Ben lungi dall’esultare per l’arrivo sulle teste di tanti civili di bombe e colpi d’artiglieria, è utile però ricordare il motivo per il quale questa crisi non è possibile risolverla per vie diplomatiche: nel Ghouta Est risiedono alcune delle più pericolose sigle jihadiste che hanno messo piede in Siria, tali gruppi nell’estate del 2012 hanno cinto d’assedio la capitale siriana prima di rintanarsi in questa regione posta nella periferia orientale damascena. Gli abitanti del Ghouta Est sanno bene cosa vuol dire aver iniziato a convivere con la presenza di uomini barbuti inneggianti alla jihad; molti civili hanno visto portare via le proprie mogli, i propri figli ed i propri affetti da terroristi che non hanno avuto scrupoli nel rinchiudere centinaia di innocenti in gabbia per piazzarli sui tetti dei palazzi, in modo da utilizzarli come scudi umani contro i raid governativi. Specialmente tra il 2012 ed il 2013, quando si è ben capito come l’offensiva jihadista non era destinata a centrare l’obiettivo a Damasco, la scure della follia islamista si è abbattuta nei quartieri della capitale e del Ghouta est da loro controllati;  ma non solo: nel novembre 2015 hanno fatto il giro del mondo le immagini di un corteo, composto da almeno cento gabbie con all’interno almeno sette od otto persone, sfilare lungo una città del Ghouta in un’atmosfera di gogna che ha poi preceduto l’allocazione di tali gabbie sopra i tetti dei palazzi più alti. 
 
Non c’erano nemici o militari dentro quelle sbarre improvvisate, bensì solo civili colpevoli di essere alawiti come il presidente Assad; un’azione criminale di inaudita crudeltà, compiuta tra gli sguardi attoniti dei mariti che vedevano le proprie mogli rinchiuse come animali e portate chissà dove, senza forse la possibilità di rivederle. Il Ghouta Est è dal 2012 occupato, è questo il verbo giusto da utilizzare, da gente senza scrupoli ed i cui atti criminali sono inqualificabili oltre che ingiustificabili; gruppi di terroristi armati e sostenuti, politicamente e non solo, da quei paesi che hanno da subito appoggiato la presunta rivolta siriana anti Assad in nome proprio della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Un’accozzaglia di integralisti e terroristi che dal 2012 tiene sotto scacco Damasco, non solo intesa come sede del governo siriano, ma come città dove vivono almeno due milioni di persone la cui quotidianità è provata dal pericolo di uscire da casa e beccarsi un colpo di mortaio sparato dal Ghouta.Come viene vissuta a Damasco la nuova operazione

Intanto, mentre si fa riferimento da più parti alle conseguenze dei raid siriani e russi nelle città del Ghouta, nel cuore della capitale siriana la popolazione vive nel terrore delle ritorsioni islamiste per l’operazione avviata dall’esercito fedele ad Assad; nella giornata di lunedì, un razzo ha colpito un taxi in una delle vie più trafficate di Damasco, uccidendo un civile. Questo è soltanto l’ultimo episodio che vede la città più popolosa della Siria essere oggetto di attacchi a colpi di mortaio e razzi da parte delle sigle che controllano il Ghouta, i quali non hanno mancato di provocare nell’ultimo mese ancora morti e feriti; la percezione di una sicurezza sempre più precaria rischia di impadronirsi degli animi dei damasceni, anche se la popolazione continua a vivere la sua quotidianità nella speranza che l’assalto alle posizioni delle sigle jihadiste a pochi chilometri dal centro possa finalmente allontanare per sempre la guerra dalla città. 
Soffrono sia i damasceni che gli abitanti del Ghouta Est, del resto gli innocenti sono tali in quanto parti non direttamente in causa del conflitto ed è per questo che da entrambe le parti essi vivono il comune destino di essere vittime di un qualcosa più grande di loro; pur tuttavia, dimenticarsi cosa accaduto in questa regione già cinque anni fa, omettendo le crudeltà commesse da chi ha occupato questa zona, è un’operazione che rischia di prolungare l’agonia di milioni di civili, siano essi di Damasco, del Ghouta o di altre zone di questo martoriato paese.

http://www.occhidellaguerra.it/conflitto-nella-ghouta-la-memoria-corta-delloccidente/

mercoledì 22 novembre 2017

Parla il parroco della città martire Maloula, padre Eid Tawfik: «Noi cristiani dobbiamo perdonare ma se i musulmani non riconoscono gli errori commessi non ci potrà essere riconciliazione»

di Leone Grotti

«Noi cristiani di Maloula dobbiamo perdonare, perché il perdono è il cuore della nostra fede. Ma per la riconciliazione questo non basta». Non c’è traccia di odio nelle parole di padre Tawfik Eid e non è scontato. Il parroco di Maloula, città martire siriana, si trova in Francia per un ciclo di conferenze e ha rilasciato una lunga intervista video a Tv Libertés. Padre Eid ricorda i giorni del settembre 2013, quando i jihadisti di Al-Nusra entrarono nella città, vicina a Damasco, e la conquistarono uccidendo tre cristiani (dichiarati martiri), sequestrandone altri sei (cinque sono stati ritrovati morti), distruggendo case, chiese e rubando preziose icone di santi. In quei giorni i musulmani si unirono ai jihadisti, rivoltandosi contro i vicini di casa cristiani e partecipando alle sevizie.

«VENUTI PER UCCIDERVI». La vicenda è drammatica. All’inizio delle proteste antigovernative, due terzi dei musulmani di Maloula hanno preso le parti del Free Syrian Army e si sono presentati come protettori dei residenti cristiani di fronte ai jihadisti di Al Nusra a condizione che i cristiani non si organizzassero in una milizia di difesa locale e facessero pressioni sui militari per rimuovere il posto di blocco che era stato istituito nei pressi del monastero dei Santi Sergio e Bacco. Cosa che poi è avvenuta, col risultato di consegnare alture e monastero a Jabhat al Nusra sin dal marzo 2013. In seguito i musulmani antigovernativi di Maloula hanno appoggiato le operazioni militari dei jihadisti o addirittura si sono uniti a loro. Su una parete del salone polifunzionale della parrocchia di San Giorgio, accuratamente razziato, si legge una grande scritta verniciata su di una parete: «Cristiani, alawiti, sciiti, drusi: siamo venuti per uccidervi».

LA RICONCILIAZIONE. Dopo che Maloula è stata riconquistata dall’esercito nel 2014, la vita in città sta lentamente tornando alla normalità. Tutto è da ricostruire, soprattutto i rapporti e la fiducia reciproca. «Per tornare a vivere come prima i musulmani devono prima riconoscere i loro errori. I cristiani non possono coltivare l’odio nel loro cuore, altrimenti saremmo uguali ai terroristi. Però non può esserci riconciliazione senza il pentimento da parte loro». Dalle parole e dai silenzi di padre Eid si capisce che il processo è in corso ma è ancora lontano dalla conclusione.

«COME GESÙ SULLA CROCE». Tra i cristiani rapiti e ritrovati sgozzati c’era anche il sagrestano di padre Eid, che però ha perdonato. Ma il sacerdote è il primo a imparare la fede dai suoi parrocchiani, che come tutta la popolazione del villaggio parla ancora un dialetto aramaico molto simile a quello di Gesù: «Come Gesù sulla croce, anche noi abbiamo gradito: “Dio, perché ci hai abbandonato?”. Ma poi abbiamo scoperto che non ci aveva affatto lasciati soli e la dimostrazione sono le poche perdite che abbiamo subito. La città, pur avendo passato dei mesi terribili, non è stata distrutta e oggi siamo tornati. La nostra fede oggi non solo non è stata minata, ma è più forte e sono i miei parrocchiani a dirmelo per primi».

«CRISTIANI, IMPEGNATEVI IN POLITICA». Il sacerdote, invitato in Europa dall’associazione francese SOS Chrétien d’Orient, che sta aiutando a ricostruire Maloula, ha rivolto al termine dell’intervista un appello alla Francia e all’Occidente: «Prima di tutto devo ringraziare di cuore chi ci sta aiutando a tornare a vivere. Ma voglio anche dire una cosa a tutti i cristiani, a tutti i cattolici e agli uomini di buona volontà: voi dovete affrontare una sfida più dura della nostra. Noi abbiamo subìto l’offensiva dei terroristi, voi dovete combattere contro ateismo e laicismo. Per farlo non potete limitarvi a lamentarvi delle cattive leggi che vengono approvate in Europa, dovete impegnarvi di più in prima persona nella vita pubblica e innervarla con la vostra esperienza di fede. Non basta dire che gli altri sono cattivi. Se non lo fate, se non vi impegnate in politica, nessuno lo farà al posto vostro».

sabato 15 aprile 2017

Verrà la Pasqua anche in Siria (?)









«Lasciate il nostro popolo libero di risorgere». Parlano i cristiani Khaled Salloum, Mons Abou Khazen, Padre Mounir, Nabil Antaki


di Leone Grotti

Anche quest’anno, il sesto consecutivo, a Pasqua i siriani si identificheranno più nella passione che nella risurrezione. E dire che le premesse sembravano buone: a dicembre il governo di Bashar al Assad, con l’aiuto della Russia e degli alleati sciiti, ha riconquistato Aleppo e cacciato da Palmira lo Stato islamico. I jihadisti indietreggiano e perdono terreno. La Turchia ha annunciato a fine marzo la conclusione dell’operazione Scudo sull’Eufrate (non proprio un successo), i colloqui di pace faticosamente vanno avanti e l’ambasciatrice americana presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, si è lasciata finalmente sfuggire parole che a Damasco si attendono dall’inizio della guerra: «Non dobbiamo necessariamente concentrarci su Assad, come la precedente amministrazione. La nostra priorità è capire come far finire la guerra, con chi dobbiamo lavorare per fare davvero la differenza per il popolo siriano»

Tacitamente, ma inesorabilmente, davanti agli occhi dei siriani andava materializzandosi un sogno: la fine della guerra e la definitiva sconfitta delle milizie ribelli e jihadiste. Cinquantanove missili Tomahawk a stelle e strisce hanno spazzato via nottetempo questa immagine felice, causando un brusco risveglio a chi, come
Khaled Salloum, sperava che Donald Trump «avrebbe agito diversamente da Barack Obama». L’ingegnere cristiano di 66 anni, oggi in pensione, abita a Homs, nella Valle dei cristiani, a una sessantina di chilometri dalla base aerea governativa di Shayrat, pesantemente danneggiata dal raid americano, che ha anche causato la morte di almeno 15 persone. «Non ci aspettavamo un attacco così diretto da parte degli Stati Uniti – confessa a Tempi – ma non credo che la situazione cambierà molto: è da anni che finanziano e armano gruppi di terroristi. E visto che questi non sono riusciti a vincere la guerra, ora intervengono direttamente. Trump parlava diversamente da Obama, ma ormai lo sappiamo: gli americani non possono mai essere presi sul serio».

Il presidente repubblicano, che ha ordinato l’offensiva dalla Florida prima di mettersi a tavola con il suo omologo cinese Xi Jinping, ha voluto così «rispondere all’orribile attacco chimico contro civili innocenti con cui Assad ha stroncato la vita di uomini, donne e bambini». È dalla base di Shayrat infatti che si sarebbero alzati in volo gli aerei che avrebbero ucciso circa 70 persone a Idlib. Il condizionale è d’obbligo, visto che nella provincia governata dai jihadisti di Al Nusra (ora hanno cambiato nome ma restano la branca siriana di Al Qaeda) non ci sono giornalisti e l’unica fonte di informazioni sull’attacco è quell’Osservatorio siriano per i diritti umani che parteggia per i ribelli contro Assad.

«Non c’è diritto d’ingerenza»
«È sempre la stessa storia. Hanno fatto lo stesso in Iraq, in Libia e ora in Siria. Purtroppo l’ipocrisia degli Stati Uniti non cambia mai. L’attacco chimico è solo una scusa. Se volevano sapere davvero che cosa è successo, perché non hanno inviato una commissione? Perché non hanno mandato una squadra per capire chi sono i responsabili?».
Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, non si dà pace. Il raid americano lo ha lasciato sgomento e arrabbiato. «Noi dobbiamo domandarci: a chi giova questo attacco chimico?», si sfoga con Tempi. «Chi avvantaggia? Non la Siria, non Assad ma i terroristi islamici. Io l’ho sempre detto: non si può cantare vittoria, con gli americani bisogna aspettarsi di tutto. Perché vogliono decidere loro per noi? Perché non lasciano che sia il popolo siriano a scegliere da chi vuole essere governato?».
Anche Nabil Antaki, medico di Aleppo ovest che ha vissuto sulla sua pelle la tragedia dell’assedio da parte dei ribelli e la gioia della riunificazione, non riconosce alcuna superiorità morale a Washington. «Che diritto hanno gli Stati Uniti di bombardare la Siria?», risponde a Tempi via mail in uno dei pochi momenti della giornata in cui è disponibile l’elettricità. «Chi li ha nominati poliziotti globali? Questo famoso “diritto d’ingerenza” non è semplicemente il diritto del più forte di intervenire a casa degli altri senza il loro consenso? La popolazione di Aleppo è in collera e abbiamo anche paura che scoppi una terza guerra mondiale». Mentre gli alleati di Damasco, Russia e Iran, promettono infatti che non resteranno a guardare («risponderemo se verrà ancora superata la linea rossa»), l’ambasciatrice americana Haley rincara la dose: «Non ci sarà soluzione politica con Assad alla guida del paese. Siamo pronti a intervenire ancora».

 «Dovete dire la verità»
Dalla capitale economica della Siria a quella politica il sentimento della gente è sempre lo stesso.
Padre Mounir, 33 anni, è originario di Aleppo, ma dopo essere entrato nell’ordine dei salesiani, e ordinato sacerdote quattro anni fa a Torino, è andato a svolgere il suo ministero a Damasco, dove si occupa in oratorio di oltre 1.200 giovani. Ha deciso lui di tornare in Siria: «Non vedevo l’ora», racconta a Tempi. «Non ho mai pensato di rimanere in Italia, anche se i miei genitori e la mia famiglia sono scappati e hanno dovuto lasciare Aleppo per la Germania. Hanno cercato di convincermi ma più infuriava la guerra, più desideravo di tornare a servire il mio popolo in difficoltà». Per padre Mounir l’attacco chimico è una «fake news». «I siriani sono arrabbiati, delusi e pensano tutti la stessa cosa», dice il sacerdote. «Il governo non è stupido: perché dovrebbe fare una cosa simile e rivitalizzare i suoi avversari? La verità è che gli Stati Uniti vogliono favorire l’Isis, ridare loro entusiasmo dopo le ultime sconfitte per mano del governo e dei russi. La gente non fa altro che parlare dell’Arabia Saudita e della Turchia, che hanno esultato all’indomani dell’offensiva americana. Qui anche i bambini sanno che senza questi sponsor internazionali la guerra sarebbe già finita. Ma se serviva una conferma, è arrivata». Chi, dopo sei anni, sembra ancora non capire, è l’Occidente: «Questa non è una guerra civile. Se Europa, America e paesi del Golfo smettessero di armare i terroristi, gli scontri finirebbero subito. Voi giornalisti avete un’enorme responsabilità: dovete dire la verità e dare voce al popolo siriano, non solo agli alleati dei governi europei. Purtroppo è difficile trovare un giornale occidentale che faccia questo lavoro».

 «Eppure continueremo a lottare»
Ora i siriani sono divisi tra rassegnazione e voglia di reagire. L’ingegnere di Homs,
Salloum, rientra sicuramente nella seconda categoria. «Siamo circondati da forze e milizie straniere che entrano nella nostra terra per conquistarla. Ma noi non la abbandoneremo e resisteremo», continua. «Dopo sei anni di guerra nessuno ha più paura, tutti hanno visto in faccia la morte e ormai non ci importa più. Non sarà bello da dire, ma io preferisco morire piuttosto che vedere comandare chi usurpa casa mia».
Certo continuare a sperare in una risoluzione pacifica del conflitto che lasci la Siria intatta, senza smembrarla in stati e staterelli confessionali, è arduo. Anche per un prete alle porte della Pasqua. «Davanti ai giovani cerco sempre di mostrarmi speranzoso, ma dopo questo attacco dentro di me faccio fatica a credere che anche la Siria prima o poi conoscerà la risurrezione pasquale», ammette. «Eppure il popolo siriano ama la vita e ha ancora voglia di lottare. Le celebrazioni di questi giorni, che noi siamo liberi di fare in chiesa e per strada al contrario di quanto avviene in tanti paesi del Medio Oriente, ci aiuteranno ad andare avanti».


Anche il medico Antaki, membro laico dell’ordine dei frati maristi blu, attende la Settimana Santa per non arrendersi alla disperazione: «Malgrado il pessimismo che ci circonda, celebreremo ugualmente la Pasqua nella speranza della risurrezione, della fine della guerra. Se noi non avessimo creduto alla speranza che solo Gesù porta, avremmo abbandonato il nostro paese da tempo e ce ne saremmo andati come milioni di altri siriani».

venerdì 7 aprile 2017

Gli USA attaccano la Siria, senza attendere la raccolta delle prove circa l'attacco chimico a Idlib

In questo momento di grave preoccupazione per l'aggressione di questa notte da parte USA alla Siria sovrana,  sottoscriviamo il comunicato della  RETE NOWAR ROMA


"Le dichiarazioni della rappresentante degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, secondo cui gli USA potrebbero scatenare un intervento militare diretto in Siria anche senza l'autorizzazione dell'ONU, le analoghe dichiarazioni bellicose della UE e della NATO, le minacce al Presidente siriano Assad di Israele e Turchia , prefigurano un drammatico scenario di guerra ed allontanano ogni soluzione alla crisi siriana e Medio Orientale.
Già nel 2013, in occasione di un presunto attacco chimico dell'Esercito Siriano alla periferia di Damasco, rivelatosi poi una  provocazione  organizzata dai gruppi terroristi in difficoltà per causare un intervento armato degli USA a loro favore, si sfiorò una guerra aperta con il coinvolgimento di varie potenze. Il precipitare della crisi fu evitato da un oculato intervento della diplomazia russa. Pur incolpevole, la Siria accettò di eliminare per intero tutto il suo arsenale di sostanze e armi chimiche.
Oggi la storia si ripete con una nuova provocazione che riguarda l’accusa di un attacco chimico sulla provincia siriana di Idlib, da vari anni sotto il controllo dei terroristi di Al Qaida sostenuti da Turchia, Arabia Saudita, Qatar, da vari paesi occidentali e Israele.
Le accuse al governo siriano  provengono dalla stessa Al Qaida, da agenzie legate a paesi aggressoricome il Qatar e l’Arabia Saudita - Al Jazeera e Al Arabya - e da un’agenzia di notizie situata in Inghilterra (Osservatorio Siriano per i Diritti Umani - SOHR) che collabora da anni con i gruppi terroristi che tentano di destabilizzare la Siria. Questa è stata subito affiancata da ONG  dagli stessi indirizzi, come gli "Elmetti Bianchi", fondati da membri del servizio segreto britannico  e Medici Senza Frontiere, fondati dall’ex ministro degli esteri francese Kouchner, partecipe delle avventure belliche del presidente Sarkozy.
Nessun ragionamento viene fatto dai nostri mass media, come sempre al servizio dei governi occidentali e della NATO, sulla circostanza che il governo siriano, nel momento in cui stava prevalendo militarmente e aveva ricevuto persino un esplicito riconoscimento da parte dell'amministrazione Trump per bocca del segretario di Stato Tillerson e della rappresentante USA all'ONU Haley, non aveva alcun interesse ad essere rimesso sul banco degli accusati con un'azione  senza senso e autolesionista.
Né si tiene conto delle dichiarazioni di parte russa e siriana, basate su rilievi satellitari, per cui l’esplosione è stata causata da un bombardamento siriano su quello che è poi risultato essere un deposito di armi chimiche allestito dai terroristi, né delle dichiarazioni di  testimoni locali, come il vescovo di AleppoCome numerose altre provocazioni terroristiche precedenti, in Siria e nel mondo, lo scopo della coalizione guerrafondaia di neocon, neoliberal, Israele, UE e Nato, è ancora una volta di chiudere qualsiasi  ipotesi di soluzione giusta in Siria e di ostacolare ogni dialogo costruttivo con la Russia. 
Invitiamo tutti i cittadini amanti della pace alla massima vigilanza, a valutare attentamente e contrastare le  false notizie diffuse per giustificare attacchi militari, come già avvenuto ad esempio in occasione delle presunte "armi di distruzione di massa" di Saddam. I propalatori di quelle false notizie, come Tony Blair (ufficialmente riconosciuto come bugiardo da una commissione parlamentare britannica) e George Bush, responsabili di milioni di morti, non hanno mai pagato per i loro crimini e anzi hanno ricevuto incarichi prestigiosi e ben remunerati. Il Presidente Assad, nominato con un regolare processo elettorale, è invece definito dittatore, come tutti coloro che difendono l’indipendenza del proprio paese dalle mire imperiali dei potentati occidentali, ed accusato, senza prove, di essere un criminale.
Invitiamo tutti i cittadini ad opporsi in ogni modo ai pericoli di guerra.
La guerra è una strada senza ritorno.

RETE NOWAR ROMA


Usa attaccano la Siria. Mons.Abou Khazen: «Perché vogliono decidere loro per noi?»



«È sempre la stessa storia. Hanno fatto lo stesso in Iraq, in Libia e ora in Siria. Purtroppo l’ipocrisia degli Stati Uniti non cambia mai». È sgomento e arrabbiato monsignor Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, commentando a tempi.it l’attacco missilistico di questa notte con cui gli Stati Uniti hanno inflitto «pesanti danni» alla base siriana di Al Shayrat, da dove secondo l’intelligence americana sarebbero partiti i jet di Bashar al-Assad carichi di armi chimiche....
«Noi dobbiamo domandarci: a chi giova questo attacco chimico?», non si dà pace monsignor Abou Khazen. «Chi avvantaggia? Non la Siria, non Assad ma solo i jihadisti. E loro fanno vedere solo quello che vogliono, hanno in mano tutta la propaganda e il mondo intero gli va dietro». La città di Aleppo è da poco stata liberata dall’assedio dei terroristi (dicembre 2016), ma per la Siria non c’è pace: «Io l’ho sempre detto: non si può cantare vittoria perché con gli americani bisogna aspettarsi di tutto. Perché vogliono decidere loro per noi? Perché non lasciano che sia il popolo siriano a scegliere da chi vuole essere governato?».
Dopo la grande paura di stanotte il popolo siriano è «indignato, triste. Che cosa le devo dire? Ringraziamo tutti gli americani e gli inglesi, anche perché l’Isis ha appena ricominciato ad attaccare qui vicino. Forse non è un caso. La verità è che gli americani vogliono arrivare a conquistare i giacimenti di petrolio e gas. E non è certo la prima volta che ci attaccano: quando hanno attaccato la centrale elettrica qui vicino, che forse non riusciremo più a sistemare, qualcuno ha protestato? No, nessuno ha aperto bocca. E non è forse un crimine? Che cos’è, anche quello un atto umanitario?».

http://www.tempi.it/usa-attaccano-la-siria-abou-khazen-perche-vogliono-decidere-loro-per-noi#.WOdYTfnyiM8

lunedì 28 novembre 2016

L'arcivescovo Jacques Behnan Hindo spiega le dinamiche della guerra siriana


Intervista di Rodolfo Casadei

Tempi, 28 novembre 2016

Parla della sua regione e la sua arcidiocesi (o arcieparchia), che si estende da nord a sud dalla città di Qamishli, al confine con la Turchia, fino alla derelitta Der Ezzor non lontano dal confine con l’Iraq occupato dall’Isis, e verso ovest fino a Raqqa compresa, la capitale del califfato di al-Baghdadi.

Stiamo parlando dell’angolo nord-est della Siria, quello incuneato fra Turchia e Iraq. In Europa questa regione è chiamata la Mesopotamia siriana, nel mondo arabofono è nota come la Jazira, parola che significa “isola”: si tratta dei territori compresi fra l’alto corso dei due fiumi che poi entrano in Iraq, il Tigri e l’Eufrate. Gran parte dell’area è fertilissima e rappresentava in tempo di pace il granaio della Siria. Nella parte di questa regione coincidente col governatorato di Hassaké, prima della guerra i cristiani erano numerosi, circa 200 mila pari al 15 per cento di tutti gli abitanti. Appartenenti principalmente a sei chiese diverse: siro cattolici, siro ortodossi, armeni apostolici, armeni cattolici, caldei e assiri orientali. Sia nell’agricoltura sia nell’industria, rappresentavano l’élite sociale: secondo i dati di monsignor Hindo detenevano il 60 per cento del Pil prodotto nel governatorato di Hassaké. Ora la loro presenza è dimezzata, molti sono fuggiti per non restare coinvolti nei sanguinosi combattimenti iniziati nel 2011 e che oggi vedono scontrarsi soprattutto le Forze democratiche siriane (Fds), composte dai miliziani curdi dell’Ypg e da milizie locali beduine, e l’Isis, che ha da queste parti la sua roccaforte siriana. Le principali città sono in parte sotto controllo dei governativi di Damasco, in parte sotto quello dei curdi dell’Ypg o dell’Isis.

Monsignor Hindo spiega qual è stato il ruolo delle Chiese nel momento in cui l’episodio siriano della cosiddetta Primavera araba stava tracimando dalle proteste di piazza alla guerra civile. «Nella nostra regione i cristiani sono sempre stati considerati i mediatori dei conflitti. Quando sono cominciate le tensioni, siamo stati chiamati ad appianare le divergenze politiche sorte all’interno delle tribù beduine e della componente curda. Nei primi tempi ci siamo riusciti, come succedeva spesso in passato, ma in seguito abbiamo perso completamente il controllo della situazione».

Tu paghi, io combatto
Del ruolo delle tribù beduine nella guerra civile siriana parlano solo gli specialisti, letti e consultati da pochi, ma si tratta di uno dei fattori decisivi del conflitto. I beduini, fra nomadi e sedentarizzati, rappresentano il 12-15 per cento della popolazione siriana. Alcune tribù sono fedelissime del governo centrale, altre sono legate all’Arabia Saudita, ma in generale i beduini non nutrono sentimenti di appartenenza a un paese oppure a un altro: si legano ad altri solo per il vantaggio della propria tribù.
«I beduini non hanno patria, sono devoti solo alle loro gerarchie tribali, e anche se sono tutti musulmani sunniti non sono molto religiosi: in Europa li definireste dei credenti non praticanti. In Siria il governo, che negli anni Sessanta ha tolto le terre ai loro capi per darle alle famiglie povere, nei decenni successivi ha cercato di ingraziarseli con politiche assistenziali. Gli anni precedenti il 2011 sono stati caratterizzati da grandi siccità nelle regioni semidesertiche della Siria che loro abitano, e ciò li ha resi disponibili ad aderire alla ribellione. In quegli anni molti di loro si sono trasferiti in città a Damasco, ad Aleppo e a Daraa, e lì sono stati il nerbo delle proteste. All’inizio hanno aderito in massa al Free Syrian Army (Fsa) filo-occidentale, che però pagava solo 10 mila lire siriane al mese (che nel 2012 equivalevano a 185 dollari), ma quando è apparsa Jabhat al-Nusra (l’equivalente siriano di Al Qaeda), sono passati in massa con lei soprattutto perché pagava il doppio! Quindi è arrivata l’Isis, che noi chiamiamo Daesh, e di nuovo molti beduini, parliamo di migliaia di combattenti, hanno cambiato bandiera, perché loro pagavano mille dollari a persona! Una famiglia con sei figli maschi poteva incassare 6 mila dollari al mese, una somma enorme per loro. In quel periodo i beduini hanno cominciato a vestirsi e a comportarsi come pretendeva lo Stato islamico. Poi gli americani, i russi e i curdi hanno cominciato a bombardare e attaccare il Daesh, i suoi pozzi petroliferi e le autobotti con cui il petrolio veniva trasportato al confine. Le loro risorse sono svanite, e adesso i combattenti locali sono pagati solo 200 dollari. Un po’ per questo, e un po’ perché hanno visto che l’Isis era attaccata da tutti e perdeva terreno, i beduini che combattevano per loro sono passati in massa dalla parte dei curdi».
Le divisioni tra i curdi
E così cominciamo a proiettare un po’ di luce sul mistero delle Forze Democratiche Siriane (Fds), coalizione di combattenti curdi dell’Ypg e di milizie arabe. Le milizie arabe altro non sono che le varie tribù beduine che hanno cambiato bandiera e sono passate coi curdi. Anche su questi ultimi Hindo fornisce informazioni molto interessanti: «Non tutti i curdi stanno dalla parte dell’Ypg e del suo braccio politico, il Pyd, che ha come obiettivo l’indipendenza di un vasto territorio sotto il nome di Rojava. I curdi rappresentano forse il 30 per cento degli abitanti della regione, e di questi solo la metà o poco più appoggia la linea politica del Pyd, che ha la stessa ideologia laicista del Pkk di Abdullah Ocalan in Turchia. Molti giovani curdi sono fuggiti nel Kurdistan iracheno per non essere costretti a combattere prima con l’Ypg e poi con le Fds. Fino a un anno fa, quando appunto sono nate le Fds, c’era un accordo di non belligeranza fra i curdi dell’Ypg e le forze governative. Damasco ha pure fornito segretamente armi e risorse ai curdi, ai quali è stato permesso di controllare gran parte dei territori del nord-est. La cosa è cambiata quando gli americani hanno sponsorizzato la nascita delle Fds e hanno cominciato ad armarle e finanziarle con larghezza. Allora i rapporti con le forze governative si sono logorati, e in alcune località, come nella città di Hassaké, ci sono stati aspri scontri, in particolare nel quartiere cristiano delle sei chiese, che adesso è zeppo di check-point. Sono stati otto giorni molto sanguinosi».

Milizie cristiane
Facciamo presente al nostro interlocutore che nel nord-est della Siria i cristiani appaiono divisi politicamente e militarmente: la milizia Sootoro appoggia le forze governative (esercito e Ndf, le milizie popolari di quartiere), la quasi omonima milizia Sutoro sta dalla parte delle Fds. «È vero, c’è questa divisione, ma i cristiani filo-curdi in realtà sono poco numerosi: credo 300 famiglie in tutto, dai cui ranghi provengono gli armati di Sutoro. Si tratta di elementi ideologicamente di estrema sinistra o di nazionalisti etnici assiri e siriaci. Sono pochi anche i cristiani coinvolti in Sootoro. La grande maggioranza di noi o sostiene il governo, o critica il governo ma resta leale al presidente Assad. I Sutoro cercano di farsi valere all’interno delle Fds: recentemente la componente curda ha deciso di requisire tutte le case dei cristiani che sono emigrati a causa della guerra, ma Sutoro ha protestato e ha ottenuto che le case siano affidate alla loro competenza. Stanno cacciando i nuovi residenti, spesso arabi a cui i cristiani avevano venduto o affittato la casa prima di andarsene, e mettono dentro persone che scelgono loro».
Monsignor Hindo classifica se stesso fra coloro che criticano il governo ma riconoscono l’autorità del presidente Assad: «Il 28 giugno scorso ho incontrato il presidente e gliel’ho detto di persona, poi ho scritto una lettera in quattro punti perché restasse agli atti: il governo deve cambiare il suo modo di agire, il partito dominante, il Baath, continua a comportarsi come se vivessimo in tempi normali, e non in tempo di guerra. Nomina le persone sbagliate nei posti sbagliati, seguendo logiche partitocratiche, settarie, di clan, di fazione. Per il 95 per cento, le persone competenti, oneste e intelligenti che ci sono nel partito vengono tenute ai margini e non vengono promosse alle responsabilità che meriterebbero. Il risultato è l’incancrenimento della corruzione amministrativa. L’ho detto anche al governatore militare di Hassaké: “Lei ha tutti i poteri, lei può sradicare la corruzione”. Mi ha chiesto cos’è che vogliamo noi cristiani. Gli ho risposto: “Per noi stessi non vogliamo nulla, vogliamo la giustizia, la pace, la sicurezza personale e comunitaria per tutto il popolo, e vogliamo che siano colpiti coloro che rubano il denaro pubblico”».
Come si vive a Raqqa
Monsignor Hindo ne ha anche per le Nazioni Unite: «Da tempo il governo pratica la politica dell’amnistia e della riconciliazione per chi depone le armi e firma l’impegno a non praticare più la lotta armata. In alcuni casi si è provveduto a trasportare nelle zone controllate dalla ribellione chi voleva continuare a combattere, per poi dichiarare la cessazione delle ostilità in quartieri, villaggi e città dove restano molti ex combattenti che riprendono la loro vita normale. È la strada giusta, è l’unico modo per ricomporre il tessuto della società siriana strappato dalla guerra. Abbiamo una serie di esperienze positive a Homs, Mouadamiya, Daraya, Qudssaya. Quando invece si mettono di mezzo le Nazioni Unite, quando l’Onu entra nelle trattative, le cose si complicano e spesso i negoziati falliscono. Perché? Perché quando vedono rappresentanti degli enti internazionali, i ribelli si sentono molto importanti e alzano il prezzo della resa. Si sentono spalleggiati da autorità di livello mondiale, e allora si irrigidiscono. Dove le trattative si svolgono esclusivamente fra siriani, spesso si arriva a una soluzione negoziata, dove si mette in mezzo l’Onu, le trattative stentano. In parte questo sta succedendo anche ad Aleppo».
L’arcidiocesi di monsignor Hindo si estende fino a Raqqa, ed è una vera sorpresa venire a sapere da lui che nella capitale del califfato vive più di qualche cristiano: «Le sole famiglie siro cattoliche sono 15. Escono di casa solo per andare al lavoro, hanno molta paura a farsi vedere in giro. Ma non si lamentano dell’amministrazione: l’Isis fa rispettare tutte le leggi, non solo quelle di ispirazione religiosa, e dopo che hanno pagato la tassa di sottomissione coranica, la jizya, i cristiani sono trattati come gli altri cittadini. Lo Stato islamico ha fissato il prezzo di tutti i servizi, e fa rispettare rigorosamente le norme: se qualcuno non paga a un cristiano la riparazione effettuata presso la sua officina meccanica, il cristiano va a protestare dallo sceicco e quello rapidamente costringe il cliente a saldare il conto alla cifra fissata. Per i sacramenti, battesimi e matrimoni soprattutto, vengono da noi ad Hassaké: celebriamo il rito e festeggiamo insieme, poi loro tornano a Raqqa. Chi è in regola col pagamento della jizya non ha problemi e può viaggiare».
L’ombelico di Dio
Il vescovo non è mai stato a Raqqa da quando è scoppiata la guerra, e forse è meglio così, sentendo quel che dice quando parla della sua fede cristiana: «Io non credo in un Dio unico, credo in un Dio trino. Perché un Dio unico che ama se stesso sarebbe un Dio narcisista. Non credo in un Dio potente, perché sono creatura debole come debole è tutta la creazione. E non credo in un Dio eterno che eternamente ruota attorno al suo ombelico, perché sarebbe un’eternità vuota. Credo che Dio lo abbiamo conosciuto in Cristo quando è salito sulla croce e ci ha rivelato l’amore di Dio. Dio ha amato tanto il mondo da mandare Suo figlio, e Suo figlio si è fatto sacrificio per noi per aprire al mondo la strada della resurrezione e ci ha inviato il Suo Spirito vivificante. Credo in un Dio che ha una storia, che ha un presente e un futuro, in quanto verrà. Un Dio che non soffre non è un Dio che ama, Dio si è fatto uomo per soffrire e per amarci. Non possiamo conoscere Dio che a partire dal sacrificio di Suo figlio. La Chiesa ci aiuta a diventare uno in Cristo, e quando saremo uno in Lui e con Lui, saremo anche uno con il Padre».

lunedì 6 giugno 2016

L'oratorio estivo dei francescani chiama l'Italia


Avvenire, 4 giugno 2016
di Giorgio Paolucci

Un oratorio a prova di bomba. L’immagine non sembri irriverente né spropositata né troppo ottimistica, perché è quello che accade in questi giorni ad Aleppo e che si propone davvero come sfida alla logica umana. 

Trecentocinquanta bambini dai 3 ai 15 anni, aderendo all’invito dei frati minori che curano la parrocchia latina di San Francesco, tornano a essere protagonisti di un oratorio estivo in un contesto totalmente sfavorevole, devastato e devastante. Si gioca, si canta, si prega, si diventa amici, mentre tutto intorno si combatte, con il boato delle esplosioni a fare da sottofondo. 

È una luce nel buio della città martire della guerra siriana, definita dall’Onu la più sanguinosa dopo il secondo conflitto mondiale: 250mila morti, milioni e milioni e milioni di sfollati. Sembra incredibile, eppure accade: un’oasi di pace abitata da trecentocinquanta bambini e ragazzi, cento in più dell’anno scorso, più della metà dei piccoli cristiani rimasti ad Aleppo. Cattolici, ortodossi, armeni, melchiti, tra i quali l’esperienza dell’unità prevale sulla differenza delle antiche screziature confessionalinel segno della «gioia del Vangelo» e di quell’«ecumenismo del sangue» più volte evocato da papa Francesco proprio in riferimento alla situazione dei cristiani nel Vicino Oriente.

Quest’anno, poi, c’è una novità che riguarda direttamente il nostro Paese:l’Associazione Pro Terra Sancta, che opera al servizio della Custodia di Terra Santa affidata ai francescani dal 1217, ha proposto alle parrocchie italiane di avviare dei gemellaggi perché i piccoli siriani sperimentino la vicinanza dei loro coetanei italiani, e questi ultimi possano conoscere da vicino come si vive laggiù, con l’ausilio di un libretto che documenta la pratica delle opere di misericordia corporale, filo conduttore di questo anno giubilare (i dettagli dell’iniziativa ). 

Migliaia di bambini italiani che frequentano il "Grest" – come viene chiamato in molte nostre città l’oratorio estivo – possono leggere e vedere cosa significa concretamente dar da mangiare agli affamati, visitare gli ammalati, vestire gli ignudi, seppellire i morti. Ad Aleppo, con la sua gente. E i piccoli siriani, molti dei quali sono nati in guerra e porteranno per sempre negli occhi e nella mente il macabro ricordo del quotidiano crepitare delle armi e l’urlo straziante delle vittime, potranno trarre conforto ricevendo piccole-grandi testimonianze di amicizia: disegni, poesie, lettere provenienti dagli oratori del nostro Paese. 

«Abbiamo bisogno di questa comunione con voi», fa sapere da Aleppo padre Firas Lutfi, responsabile dell’oratorio estivo. E Ibrahim Alsabagh, il parroco, racconta che «in una Aleppo semidistrutta la gioia di stare insieme riesce a prendere il sopravvento» dentro una esperienza di vita e di amicizia nel nome di Gesù. 
Da dove viene questa irriducibile positività che potrebbe sembrare addirittura fuori luogo in un contesto di dolore come quello che da anni attanaglia l’antichissima città? Viene dalla certezza che la morte non è l’ultima parola, perché Qualcuno l’ha vinta con il sacrificio della propria vita

È una certezza generatrice di gesti che lasciano a bocca aperta. Come la preghiera recitata ogni giorno all’oratorio di Aleppo per chiedere la conversione dei cuori dei jihadisti che, poco lontano, lanciano ordigni mortali e predicano l’odio. 

O come la decisione di trasformare il residuato di una bomba caduta sulla chiesa in un vaso riempito di fiori che durante la celebrazione della messa, al momento dell’offertorio, viene portato all’altare in segno di ringraziamento. Per testimoniare che uno strumento di male può diventare strumento di bene. In quella stessa chiesa, in dicembre, era stata aperta la porta santa della misericordia, l’unica vera medicina per curare il tumore dell’odio reciproco. 

Non a caso, «Misericordiosi come il Padre nostro» è il tema che guida le otto settimane dell’oratorio estivo: sanno a Chi guardare, questi nostri fratelli che non cedono alla logica della violenza e ripongono tutta la loro fiducia in un amore capace di un perdono umanamente inconcepibile. 

«Non riusciranno ad avere la nostra paura – dice padre Firas da Aleppo –. Perché ogni giorno vogliamo sfidare le bombe e la morte con la nostra gioia di vivere». 
Di quella stessa gioia di vivere hanno bisogno i nostri figli, qui in Italia. E ne abbiamo bisogno – tanto bisogno – noi uomini e donne d’Occidente, troppo spesso incapaci di uno sguardo positivo sull’esistenza, succubi come siamo di uno scetticismo che sembra avere dimenticato il fascino di una Bellezza disarmata e disarmante, perciò ultimamente vincente. Per questo possiamo dire che oggi, davvero, da Aleppo arriva una buona notizia.

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/paolucci-luce-bambina-aleppo.aspx


«La soluzione dei problemi non verrà dalle mani dell’uomo, ma per intervento divino»


TEMPI.it , 6 giugno 2016

di Rodolfo Casadei

Di cosa sono fatti questi preti che restano sul posto, al servizio di un popolo sempre più piccolo? Questi vescovi che continuano a vigilare sul gregge anche se il pascolo è quasi diserbato e sopra ci piovono razzi e bombe? Tre quarti degli abitanti di Aleppo  se ne sono andati, in fuga per la salvezza o falciati dai cecchini e dalle esplosioni. Invece il 95 per cento del clero resiste lì dove la guerra lo ha trovato quattro anni fa, e alcuni confratelli sono giunti nel frattempo a dare manforte. Gli assenti sono quasi tutti giustificati: sono stati rapiti o uccisi nel corso della guerra. Le comunità si sono assottigliate, ma la vita comunitaria cristiana si è intensificata grazie alla dedizione dei sacerdoti. Nessuno di loro lascia mai la sua postazione, se non temporaneamente per poi tornare a servire meglio la comunità.
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Le notizie dal fronte come sempre oscillano fra l’illusione e la disperazione. Pare essere alle viste una grande offensiva delle Forze democratiche siriane, cioè curdi e arabi armati e sostenuti dal Pentagono, supportati dall’aviazione della coalizione a guida statunitense, contro Raqqa, la capitale dell’Isis. Pare che i russi abbiano concesso una tregua ai ribelli per incoraggiarli a staccarsi da Jabhat al Nusra e che vogliano unirsi all’offensiva contro Raqqa, ma gli americani hanno risposto “niet”. 
Intanto i turchi ritornano all’attacco con la loro proposta di creare una zona di non sorvolo e di protezione umanitaria all’interno del territorio siriano, garantita dalla Nato: la questione dei profughi è un puro pretesto, Erdogan vuole poter occupare fette di territorio siriano con l’approvazione della comunità internazionale o almeno di arabi e occidentali. 
I siriani come padre Ibrahim guardano con scetticismo a questi sviluppi. Ma soprattutto con una certezza di fede che spiazza l’interlocutore: «La soluzione dei nostri problemi non verrà dalle mani degli uomini, ma per intervento divino. Abbiamo fiducia nella preghiera nostra e vostra. Il futuro è avvolto nella nebbia, tanti pensano di emigrare, noi restiamo per la forza della fede».

Finiti i soldi ne arrivano altriLa parrocchia di san Francesco ad Azizieh è diventata un centro di resistenza umana non solo per le 600 famiglie di parrocchiani latini rimaste in città, ma per tutte le 12 mila famiglie cristiane ancora presenti e per i musulmani sfollati nei quartieri a maggioranza cristiana a causa della guerra. Che si tratti del pacco alimentare, delle sovvenzioni per l’acquisto di medicinali o di carburante per i generatori, dell’accesso all’acqua dei pozzi quando si interrompe l’erogazione di quella della rete cittadina, dell’oratorio estivo, del catechismo, dei gruppi di studio per gli alunni delle superiori e universitari, del té delle cinque per le signore nel cortile della parrocchia, delle visite ai malati, agli anziani, ai feriti e ai poveri («più del 90 per cento di tutti i nostri parrocchiani vive sotto la linea della povertà», dice padre Ibrahim), la parrocchia latina è diventata punto di riferimento per tantissimi aleppini in cerca di aiuto e di calore umano nella città semideserta e impoverita. Per arrivare a questo ci voleva il coraggio dei frati di restare, la capacità di intrecciare rapporti coi donatori in Europa, le qualità pastorali appropriate per una situazione limite come quella di una guerra che va avanti per anni senza che se ne intraveda la conclusione all’orizzonte.
Tutto questo non poteva condensarsi senza una maturazione di fede. Questo è ciò che il francescano spiega: 
«Ad Aleppo siamo circondati dal male, ne facciamo esperienza quotidianamente e questo male ci spaventa. Ma proprio l’azione di questo male per reazione produce in noi il bene. La nostra natura spirituale, colpita dal male, genera il bene. Nel momento in cui ci affidiamo a Dio, Lui agisce in noi attraverso il suo Spirito, ci dona la carità, e la carità ci insegna cosa fare, ci spinge oltre i nostri limiti, ci permette di affidarci alla Provvidenza. Faccio un esempio: all’inizio io avevo molto paura di spendere il denaro che mi era stato affidato, temevo di sbagliare, di restare senza, di non poter affrontare emergenze future. Quando mi sono fidato della Provvidenza, e ho svuotato le mie tasche del denaro che c’era, e ho speso come un incosciente, allora ho fatto esperienza della Provvidenza: abbiamo risposto ai bisogni, è arrivato altro denaro a prendere il posto di quello che non avevamo più, e la cosa è andata sempre crescendo. Quando leggo le cifre dei soldi che abbiamo ricevuto e speso in questi mesi, mi spavento. Mi chiedo come abbiamo fatto e come facciamo a continuare così. Mi rispondo: affidandoci allo Spirito Santo. Questo fa sorgere in noi la carità, che è virtù coraggiosa, e la carità rende presente il Regno di Dio qui e ora, in mezzo all’inferno e al purgatorio della Aleppo di tutti i giorni: famiglie rimaste senza casa, persone fatte a pezzi dalle bombe, gente che impazzisce, gente che soffre per la povertà o per le ferite». «Siamo riusciti a fare cose che gli enti istituzionali non riuscivano più a fare, a intervenire tempestivamente laddove le Ong ci mettevano mesi perché ponevano condizioni e avanzavano pretese che si possono soddisfare soltanto avendo a disposizione molto tempo. Ma nel frattempo tanti sarebbero morti, se noi non ci fossimo buttati subito».