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sabato 23 ottobre 2021

In Siria torna a salire la tensione militare

 

Riprendiamo dal Sussidiario l'interessante intervista al generale Marco Bertolini, già comandante della Brigata paracadutisti Folgore a Kabul nel 2008 e capo di Stato Maggiore Isaf in Afghanistan.

Precisiamo, supportati dalle nostre fonti siriane, alcuni particolari che sembrano essere sfuggiti: pochissimi media hanno diffuso le immagini dell'esplosione dell'autobus militare in pieno centro di Damasco, in cui sono morte 14 persone – non tutti militari.... la distribuzione del filmato è stata immediatamente seguita da un video dei Caschi Bianchi dell'esplosione di una bomba a Idlib, in cui si dice che siano stati uccisi (anche) bambini, enfatizzando quest'ultima notizia.

Quelle bombe sugli autobus a Damasco erano chiaramente pianificate: pianificate nella strategia, nel tempo, nel luogo, nelle vittime scelte. Dovevano mostrare al mondo che non c'è sicurezza nelle aree governative, che i rifugiati non possono tornare, che investire è uno spreco di denaro. Sono state collocate perché ultimamente è stata prestata troppo poca attenzione all' “ultima roccaforte ribelle” Idlib, e perché, in seguito all'attentato di Damasco, possano essere rese pubbliche altre immagini dell' attacco “vile” dell'esercito siriano ai “bambini” di Idlib. Sono state collocate in risposta alle voci di un'offensiva siro-russa attorno alla promessa liberazione parziale di Idlib da parte di Erdogan fino a 6 km a nord dell'autostrada M4, che dalla costa del mare corre verso est via Aleppo.

Diverse esplosioni hanno scosso la regione di al-Tanf occupata illegalmente dagli Stati Uniti. Ad Al-Tanf circa 200 soldati americani addestrano "ribelli". Le esplosioni sono state causate da 5 droni, in risposta agli attacchi aerei israeliani del 13 ottobre vicino a Palmyra, ultimi di una serie di bombardamenti di Israele sul territorio siriano a cadenza quasi settimanale, effettuati con tecnica che si era già dimostrata efficace in passato, vale a dire all'ombra di un altro aereo... in modo che non potessero essere abbattuti dall' antiaerea siriana.

OraproSiria

L’attacco alla base Usa potrebbe innescare una guerra mondiale”

22.10.2021 int. Marco Bertolini

In Siria torna a salire la tensione, con un attacco prima a un autobus militare e poi a una base americana. Che cosa sta succedendo?

Della Siria non se ne parla da parecchio, è ormai scomparsa dai radar dell’informazione, nascosta dal putiferio successo in Afghanistan. Anche tanti siti che una volta seguivano giorno per giorno l’evolversi della situazione oggi sono scomparsi. La Siria è un paese occupato, nel quale la riva sinistra dell’Eufrate è in mano a curdi e americani e c’è una presenza militare americana nella base colpita, nel sud-est del paese.

A proposito di questa base, che area specifica occupa e che importanza ha nello scenario siriano?

E’ un’area di occupazione che serve a supportare il sedicente Esercito siriano libero, da sempre contro Assad e sempre sostenuto dagli Usa. Questa base è sempre rimasta anche quando Trump ordinò il ritiro dalla Siria, ritiro che poi venne sospeso e si fece marcia indietro. In quella zona gli americani sono sempre rimasti ed è una presenza che dà fastidio alla Siria, perché interdice un asse di collegamento con l’Iraq e con la Giordania, il che spiega linteresse giordano di riaprire il dialogo con Assad.

I più interessati a mantenere un collegamento tra Siria e Iraq dovrebbero essere gli iraniani, giusto?

Sicuramente è un intralcio ai collegamenti della Siria con l’Iraq. Ma gli iraniani sono molto interessati a mantenere un collegamento tra Siria e Iraq, perché significa anche un collegamento tra Siria e Iran. Il passaggio a nord di Mosul è interdetto dalla presenza americana e curda, quello a sud, invece, proprio da questa base americana, dove c’è anche il passaggio lungo l’Eufrate in cui sono avvenuti parecchi interventi militari contro le milizie iraniane. Sul fatto che sia un’azione condotta dagli iraniani, che così cercano di tenere aperto un collegamento e al tempo stesso cercano di togliersi qualche “sassolino” dalle scarpe, non ci dovrebbero essere dubbi.

Quali sassolini?

L’uccisione del generale Qasem Soleimani e gli attacchi alle basi iraniane. Il fatto che siano stati usati dei droni dovrebbe essere la prova provata del coinvolgimento iraniano.

Invece l’attacco all’autobus militare a Damasco?

A Damasco, fino a non molto tempo fa, interi quartieri periferici erano in mano all’Isis, ora Assad è riuscito a riprenderne il controllo, ma non c’è dubbio che il problema sussiste. Questo è un attacco probabilmente operato dall’Isis o un attacco ispirato dall’Esercito siriano libero. A Damasco sono in tanti a colpire e ad agire, da qui non possiamo però sapere con certezza chi sia stato.

Che conseguenze potrebbe avere l’attacco alla base americana di al-Tanf?

Il problema è che gli americani hanno dato prova di indeterminazione e indecisione con l’Afghanistan e adesso potrebbero essere tentati da una reazione muscolare per dimostrare di essere ancora una grande forza. Andare contro gli americani oggi è particolarmente pericoloso, perché le reazioni potrebbero essere anche esagerate. Gli americani non sono dalla parte del diritto in Siria, a differenza dei russi non sono stati invitati. Sono di fatto una forza di invasione.

A fine dicembre gli americani lasceranno l’Iraq, potrà scatenarsi una grave destabilizzazione dell’intera regione?

L’area è destabilizzata da quando nel 2003 ci sono arrivati gli americani.

Già, ma l’Iran non vorrà approfittare di questo ritiro?

Sicuramente, anche perché la componente sciita in Iraq è consistente. Sta cambiando qualcosa in maniera radicale in Medio Oriente e la Siria è al centro di tutto. In Siria ci sono americani e russi e un eventuale perdita di equilibrio, magari con un grosso incidente che coinvolga le due potenze, potrebbe innescare rappresaglie e controrappresaglie, a loro volta potenzialmente pericolose anche per la pace mondiale.

mercoledì 7 aprile 2021

Il futuro della Chiesa in Siria

Non ha mai abbandonato la sua città in questi dieci anni il gesuita Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo dal 1992 ed ex presidente della Caritas siriana: “Fu chiaro sin dall’inizio che le manifestazioni della cosiddetta primavera araba erano manovrate dai Fratelli musulmani sunniti. Ben presto arrivarono gli aiuti militari di Arabia Saudita e Turchia per rovesciare gli alawiti che detengono il potere”, ci ha detto in questa intervista.

Intervista di Paolo Vites a Mons. Antoine AUDO

Il Sussidiario, 05-04.2021 


Dieci anni fa, il 15 marzo 2011, scoppiò la guerra a Dara’a, nel sud della Siria e al confine con la Giordania. Avevate sperato che la Primavera araba potesse portare a un cambiamento pacifico?

Va ricordato che sin dall’inizio la maggioranza dei siriani non credeva a una primavera araba,  come annunciato dai media per giustificare questa guerra. Fin dall’inizio, in Siria, tutti sapevano che erano per lo più Fratelli musulmani sunniti che si ribellavano contro gli alawiti, che sono in maggioranza al potere e che detengono l’esercito. Inoltre, i vari gruppi armati che hanno attaccato e distrutto le infrastrutture dello Stato siriano erano di obbedienza sunnita e hanno ricevuto aiuti militari dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e da altri paesi del Golfo.

Cosa resta di questa primavera araba?

La distruzione dell’economia siriana. L’occupazione di gran parte dei territori, soprattutto nella regione di Jésiré dove si trova il petrolio. Con l’islam al servizio del potere politico ed economico, potenze regionali come la Turchia e l’Arabia Saudita hanno sostenuto i gruppi armati sunniti per rovesciare il governo siriano e dare potere ai sunniti siriani, vale a dire i Fratelli musulmani.

Cosa ha voluto dire vivere questi anni di devastazione?

La guerra in Siria è stata un inferno dall’inizio e lo è ancora oggi. Ad ogni tappa speravamo di uscire dal tunnel, e ora la situazione è peggiorata: da un bombardamento all’altro in tutte le regioni, da una carenza alimentare e medica a un’altra di gas ed elettricità. Per rileggere questi dieci anni di guerra, possiamo dire che oggi la maggior parte del popolo siriano soffre per l’alto costo della vita dovuto alla svalutazione della lira siriana. In questa crisi economica ha preso piede una nuova classe benestante, mentre la maggioranza della popolazione è umiliata e privata del necessario: cibo di qualità, medicine, riscaldamento, abbigliamento, istruzione. Con una tale crisi, la strada è aperta alla droga e alla prostituzione, mentre prima la stabilità economica e politica proteggeva le famiglie da questi abusi causati dalla miseria generalizzata.

Una situazione di distruzione generalizzata? Quali speranze concrete?

Distruzione materiale, delle infrastrutture, soprattutto a livello economico e a livello di danno materiale: ferrovie, strade, elettricità, scuole, ospedali, fabbriche. Questa situazione impedisce la visione di un futuro, di una speranza nell’immediato futuro. All’inizio della guerra, si credeva che la guerra fosse questione di pochi mesi. Oggi la maggior parte delle persone cerca cibo e medicine per non morire. I bisogni quotidiani sono cibo, medicine, riscaldamento, gas, elettricità. Tutto è diventato caro a causa della svalutazione della lira siriana, e tutti sperimentiamo la mancanza di tutto e l’umiliazione.

Ad Aleppo, martoriata da incessanti combattimenti, come è la situazione?

Ciò che sto descrivendo si applica in modo particolare ad Aleppo, la cui infrastruttura economica è stata distrutta e che, come tutti i siriani, soffre dell’embargo imposto da Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna. La ricostruzione presuppone la revoca delle sanzioni contro la Siria. Tuttavia, non avendo trovato una soluzione politica alla crisi siriana, e con un Paese minacciato dagli obiettivi di turchi, curdi e potenze occidentali, non è possibile parlare di un progetto di ricostruzione generale che presupponga stabilità e budget enormi. Ma possiamo ugualmente segnalare iniziative di ricostruzione, a livello di strade, come a livello di mercati e negozi, di piccole industrie e laboratori di abbigliamento.

La Siria era un modello di convivenza tra religioni e culture diverse: adesso?

Parliamo di dieci milioni di sfollati e rifugiati all’interno della Siria, come nei paesi vicini: Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto, per non parlare di tutti coloro che sono emigrati in Europa, Canada e Australia. Come cristiani che hanno perso più della metà dei fedeli di tutte le Chiese, specialmente i giovani e le famiglie ricche, vorremmo che tutte queste famiglie tornassero, avessero una presenza significativa e viva. Ma chi sarebbe attratto dalla situazione che abbiamo appena descritto, da osare considerare un ritorno?

Come Chiesa non avete mai smesso di aiutare la popolazione, quali le iniziative più importanti che seguite?

Per il momento, come Chiesa, stiamo cercando di aiutare le famiglie e le persone in modo che possano continuare a vivere il più degnamente possibile, in modo da non fare i bagagli ed emigrare. Allo stesso modo, è difficile prevedere il ritorno di coloro che sono emigrati in Occidente e soprattutto tra i giovani. Chi invece si trova nei paesi vicini potrà tornare in Siria più facilmente.

Veniamo a una domanda che ci sta a cuore, come Chiesa e come cristiani: come immaginare il futuro della Chiesa in Siria?

È certo innanzitutto che non si può più considerare la presenza cristiana com’era prima della guerra, secondo il modello del Novecento, una presenza consistente tra il 15 e il 20% della popolazione, con fiorente attività economica e culturale. Dovremo credere nella ricostruzione di un tessuto sociale cristiano adattato al XXI secolo. Non potremo più accontentarci della teologia, dei riti e delle confessioni, come gente alla ricerca della sola ricchezza e della superiorità economica e culturale.

Cosa ha significato per i cristiani siriani la recente visita del Papa in Iraq?

Abbiamo bisogno di una nuova spina dorsale cristiana che integri l’intera visione del Vaticano II. Fratelli tutti, la fraternità umana sono atteggiamenti da acquisire a seguito di questa guerra per poter avere una presenza viva e significativa in questa società araba musulmana e in questo mosaico di religioni ed etnie.

Il Papa ha dato un messaggio di fratellanza ben preciso che non piace a tutti. È questa la strada?

Di fronte alla modernità e nella lotta contro la secolarizzazione e l'ateismo, l’islam mette in discussione la propria identità e cerca la sua strada e la sua stabilità sociale e religiosa. Crediamo, soprattutto in seguito al viaggio di Papa Francesco in Iraq e anche ad Abu Dhabi e in Egitto (Università Al Azhar), ai suoi incontri con lo sceicco Ahmad Al Tayyeb, suprema autorità sunnita, e al suo incontro con l’ayatollah Al Sistani, suprema autorità sciita, ad Al Najaf (Iraq), che siano tutti gesti e atteggiamenti di rispetto, ascolto e fraternità che d’ora in poi dovrebbero ispirare i cristiani. I cristiani di Siria, con la loro arte di inculturarsi nella cultura araba e musulmana, sono capaci di ricostruire per tutti ponti di riconciliazione e di speranza nel cuore di questo XXI secolo assetato di pace e giustizia.

martedì 18 febbraio 2020

Strage bambini in Siria: Unicef e Save the Children lanciano l’allarme, la Chiesa siriana replica

uno dei tanti bambini di Aleppo resi mutilati dai missili
lanciati dai jhadisti sui quartieri della città fino a ieri
(foto Pierre le Corf)

Intervista di Paolo Vites a Fra Firas Lutfi
L’Unicef lancia l’allarme, ma cosa ha fatto finora per i bambini siriani? E cosa fanno le potenti nazioni occidentali, i cui giornali mettono in prima pagina le foto del piccolo Aylan, morto annegato, o di Iman, morta assiderata tra le braccia del padre? Non parlano di chi ha scatenato la guerra in Siria, una guerra per procura, dietro alla quale si nascondono le nazioni più potenti del mondo. Non dicono niente. Ma non ci sono solo Aylan e Iman, in questa guerra si contano almeno 300mila bambini morti”.

A parlare così, con voce alta e decisa, è padre Firas Lutfi, Superiore del Collegio di Terra Santa ad Aleppo, dopo l’“allarme” lanciato in queste ore dall’Unicef: “Il clima freddo presto colpirà di nuovo tutto il Medio Oriente, con temperature che scenderanno sotto lo zero in diverse aree e ogni inverno i bambini nella regione si ammalano, smettono di andare a scuola e rischiano di morire… Occorre un grande movimento globale e umano di carità o sarà una strage”.
L’Unicef – aggiunge Lutfi – non dice però che ‘un grande movimento’ esiste già e andrebbe aiutato: è la Chiesa siriana, che ha sempre sostenuto, da quando è iniziata questa guerra e ancora oggi, i bambini e le donne siriane. Nessuno dice che a Idlib, dove la Siria sta combattendo contro gli ultimi ribelli jihadisti per liberare la provincia, operano due padri francescani che accolgono nelle case dei cristiani e nei loro conventi tutti coloro che scappano dalle bombe, anche i musulmani. E la responsabilità dei giornalisti che tacciono su queste cose è gravissima”.

Padre Lutfi, l’Unicef lancia l’allarme, dopo il caso di Iman, la bambina di un anno e mezzo morta assiderata in un villaggio vicino ad Aleppo in braccio al suo papà che cercava disperatamente di raggiungere l’ospedale per farla curare. Come stanno le cose?
   Chiariamo alcune cose prima di entrare nei dettagli.
 I bambini rappresentano una linea rossa che non si può superare, vanno difesi in ogni istante, fin dalla nascita, come insegna il Magistero della Chiesa ed è ciò che il Vangelo richiama alla coscienza di tutti ogni giorno. In una guerra bambini, donne e anziani sono i primi a pagare con la vita le conseguenze delle atrocità e della cattiveria degli adulti. Detto questo, aggiungo un altro appunto: spesso e volentieri la vita di questi bambini viene strumentalizzata.

In che senso?
    Il caso di Aylan è diventato un simbolo, il simbolo di queste famiglie che scappano in cerca di una vita sicura. Ma non solo lui ha pagato, prima e dopo tanti altri Aylan e tante altre famiglie sono morti. Dove scoppia un conflitto i più vulnerabili sono i bambini, i primi ad andarci di mezzo, perché o civili sono i primi bersagli quando i combattimenti si fanno più intensi e cruenti.
Hassan, unico sopravvissuto della
sua famiglia nel bombardamento
dei jihadisti di Idlib su Aleppo,
il 25 gennaio di quest'anno

C’è però chi dice, come una volta gli americani, che in guerra si possono usare “le bombe intelligenti”: colpiscono gli obiettivi in modo chirurgico risparmiando però vittime civili…
    Ipocrisia vergognosa. La realtà, invece, ci dice che oltre alle bombe, ora si aggiungono situazioni climatiche durissime, come il freddo del deserto siriano, dove si può scendere anche sotto lo zero. E tutto questo accresce la tragedia. Piuttosto che piangere e basta sui corpi inermi di Iman o Aylan come simboli di questa strage di innocenti, tutti dovrebbero spostare l’attenzione sui responsabili di questa drammatica situazione e raccontare per quali veri fini, già nove anni fa, fu scatenata la guerra in Libia, in Siria e in Iraq, che ha già mietuto milioni di bambini e di anziani morti.

Si riferisce alle potenze occidentali e non solo, che hanno dato inizio a queste guerre che stanno devastando il Medio Oriente?
   Sono circa 300mila i bambini morti in questi nove anni. Invece di impietosire le coscienze portando alla ribalta uno o due casi drammatici, bisogna risolvere la questione alla radice. Non è giusto prendere in giro l’intelligenza degli uomini. La guerra non scoppia solo perché si vuole combattere un regime o abbattere un dittatore, ma per interessi politici e economici anche da parte di grandi nazioni che predicano la libertà, la democrazia e la dignità umana. La vita non è sacra solo se muore un americano o un europeo, la vita è sacra per tutti. Ma questo sembra non avere importanza.

Davanti alla denuncia dell’Unicef e dei media internazionali che hanno messo in prima pagina i casi di Aylan e Iman cosa dice?
   Direi che non si possono assumere solo posizioni singole di denuncia, ma occorre andare contro tutta la situazione che devasta la Siria.  Cito il caso della Turchia che invade la Siria. La Siria è un paese sovrano, deve difendere il proprio territorio, che già in precedenza era stato violato dai terroristi di tutto il mondo. È una guerra per procura. 
E il colmo è che l’esercito siriano, impegnato a liberare la provincia siriana di Idlib, viene dipinto come invasore.

Unicef e Onu non fanno mai riferimento all’impegno costante profuso in questi anni di violenze dalla Chiesa per aiutare il popolo siriano. Perché, secondo lei?
   Purtroppo certi mestieri dovrebbero mostrare maggiore onestà intellettuale. Il ruolo di queste organizzazioni, come l’Unicef, ha perso credibilità, sono diventati burattini in mano ai potenti. Anche le Nazioni Unite non hanno avuto il coraggio di prendere decisioni sulla Siria. E come ha ricordato lei non parlano del bene, enorme, che viene fatto.

Si censura il bene, si esalta il male?
   Vivo ad Aleppo da quando è cominciata la guerra e la Chiesa si è sempre mossa per tutti, non solo per i cristiani . 
La comunità cristiana a Idlib è sotto il tallone jihadista, ci sono centinaia di cristiani ostaggi in quella regione. Sono rimasti solo due sacerdoti francescani di rito latino, che però continuano a servire tutte le comunità, non solo la comunità latina, ma anche quelle armena e greco-ortodossa, e stanno cercando in tutti i modi di aiutare, sia a livello umanitario, sia a livello spirituale. Accolgono nei conventi e nelle case dei cristiani anche i musulmani in fuga. Eppure questi due sacerdoti sono sottoposti a ogni limitazione, non possono manifestare la loro fede, rischiano ogni giorno di essere rapiti o uccisi.

Intanto i giornali occidentali accusano Assad di stragismo…
   Un proverbio italiano dice che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Questi due sacerdoti vivono una fede umana e coraggiosa, aperta a tutti. Voi giornalisti che avete una coscienza e il coraggio di dire la verità parlate della presenza eroica di queste persone e della loro straordinaria testimonianza in un contesto di persecuzione.

Alla fine, in tutta questa tragedia, si può dire che resteranno impressi i gesti di carità compiuti eroicamente da questi uomini santi?
  È il compito di noi cristiani: essere lievito e sale del mondo.

venerdì 9 febbraio 2018

Le bombe Usa sui soldati siriani, ecco perché


di Fulvio Scaglione

Nella notte tra il 7 e l’8 febbraio la prima vera battaglia diretta tra le forze della coalizione internazionale capitanata dagli Usa e l’esercito regolare siriano ha complicato le cose, perché ha portato a fronteggiarsi due grandi forze militari su un terreno in cui, a dispetto di tutte le precauzioni (i quartieri generali americano e russo sono rimasti in contatto durante tutto lo scontro), le operazioni possono anche sfuggire al controllo dei comandi. Da un altro punto di vista, però, le ha chiarite e semplificate, perché le ha riportate alla loro origine.
Fin dall’inizio, ormai sette anni fa, le intromissioni nella guerra civile siriana da parte dei gruppi terroristici finanziati dai Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar in prima fila) con la tacita approvazione degli Usa e di gran parte dei Paesi dell’Occidente, avevano come scopo lo smembramento territoriale della Siria e la sottrazione al controllo di Damasco delle maggiori risorse naturali del Paese. Grazie (o a causa) all’intervento militare russo del 2015, al sostegno dell’Iran e all’accordo politico che Russia e Turchia hanno in seguito raggiunto, il primo obiettivo è stato mancato.
Così per gli oppositori internazionali di Bashar al-Assad, Vladimir Putin e Alì Khamenei, è diventato così fondamentale perseguire almeno il secondo obiettivo, soprattutto ora che siriani, russi e iraniani fanno lo sforzo decisivo per riconquistare tutta la Siria. Altrimenti la sconfitta sarebbe totale e politicamente devastante.
Per questo gli americani sono intervenuti con inattesa durezza, uccidendo con i bombardamenti aerei almeno un centinaio di soldati, quando le colonne siriane hanno cominciato a spingersi verso Est, contro le milizie dei curdi e delle Forze democratiche siriane, nell’area dove più importanti sono i giacimenti petroliferi.
Non è complicato dimostrare che questo sia il piano. Basta osservare quanto sia diverso il comportamento degli americani rispetto agli stessi alleati (i curdi, soprattutto) in un’altra area della Siria, quel cantone di Afrin dove l’esercito turco, per ordine di Recep Tayyip Erdoğan, ha preso a martellare le milizie che pure avevano bravamente combattuto l’Isis. Lì, gli alleati americani lasciano fare e si sono accontentati di invitare i turchi a «usare moderazione». Ma Afrin non è di alcun interesse strategico per gli americani, che in Turchia sono già saldamente insediati nella base aerea Nato di Incirlik e da lì possono controllare sia il Sud della Turchia sia il Nord della Siria. Ben diversa l’importanza strategica del cuore del cosiddetto Siraq, fino a pochi mesi fa occupato dall’Isis e posto perfettamente a cavallo tra la Siria di Assad e l’Iraq dei governi di fedele osservanza filo-iraniana.

Gen. Bertolini*: "Gli Stati Uniti per i loro interessi difendono ancora una volta i terroristi"


Generale, che giudizio dà di questo attacco americano inaspettato contro Assad?  Lo ritengo sbagliato. In Siria oggi non ci sono solo due parti che si combattono. Ci sono i terroristi, i siriani governativi che combattono i terroristi, poi c'è una terza parte che sostiene la Free Syrian Army dove però da tempo sono confluiti personaggi che hanno operato nell'area di al Qaeda e che sono contro Assad. Questa parte, sostenuta dagli Usa, controlla una zona particolare vicino al confine con la Giordania, dove c'è anche una base americana che consente di collegare Baghdad a Damasco.
In sostanza, gli americani sostengono i terroristi, è così?  Gli americani quando devono scegliere tra Assad e i terroristi non scelgono Assad, e questo lo fanno gli americani e anche gli israeliani.
Che proprio pochi giorni fa hanno bombardato depositi di armi che si dicono chimiche vicino a Damasco.   Gli israeliani è dall'inizio della guerra che intervengono contro i siriani colpendoli a Damasco. Il loro progetto è ampliare l'area a ridosso delle alture del Golan per avere una zona in territorio siriano sgombra da Hezbollah e siriani. E' una guerra sporca.
Sembrava che Trump avesse una politica verso la Siria diversa da quella di Obama che ha sempre sostenuto i terroristi, invece non è così.   Io speravo non finisse così ma in un certo senso me lo aspettavo.
Perché?  La politica estera americana non cambia con chi è al governo, ricordiamo che la guerra in Kosovo è stata iniziata da un democratico, Bill Clinton, che ha fatto bombardare il legittimo governo serbo per sottrargli il Kosovo. L'America ha una sua politica imperiale che non guarda in faccia nessuno, guarda solo agli interessi dei suoi alleati. Trump sicuramente si presentava con un programma diverso, aveva detto che non era Assad il suo problema, sembrava che potesse rimanere al governo. In realtà l'establishment americano ha la capacità di imporre anche alla politica la continuità imperialista e Trump non ha bisogno di altri nemici da aggiungere a quanti ne ha già.
L'attacco americano può essere stato dettato anche dalla presenza russa in Siria?  La presenza russa in Siria è tale perché richiesta dal governo a differenza degli americani che non li ha chiamati nessuno. Gli Usa non vogliono la presenza di Putin nel Mediterraneo, quando hanno potuto fare qualcosa per impedirlo lo hanno fatto.
Ad esempio?  Quando Erdogan abbatté l'aereo russo lo fece perché obbediva agli americani. Sono sempre stati estremamente attenti a fare di tutto per impedire ai russi di riguadagnare la posizione nel Mediterraneo che avevano in passato. Lo fanno in Siria dove per i russi è fondamentale avere il controllo di alcuni porti e lo fanno in Ucraina dove c'è la sede della flotta in Crimea. Teatri lontani ma in realtà l'aspetto del contrasto russo-americano li rende connessi.
*generale Marco Bertolini, ex comandante del Coi, con all'attivo missioni dal Libano ai Balcani all'Afghanistan

martedì 26 dicembre 2017

Dai Salesiani, l' "Oasi di pace" di Damasco

Intervista a padre Mounir Hanashy di Paolo Vites
Sono i siriani, quelli veri, quelli nati e cresciuti in questo martoriato paese e che per anni hanno sofferto il martirio della guerra, a sbatterci davanti il vero significato di fake news e informazione politicamente manipolata. Quando infatti senti padre Mounir Hanashi, sacerdote salesiano nato ad Aleppo e da qualche anno parroco a Damasco dire che "il fondamentalismo islamico non è nato in Siria, è stato portato qui dai paesi del Golfo e da Stati Uniti e Francia" capisci qual è la realtà dello sporco gioco fatto su mezzo milione di morti e undici milioni di profughi dalle nostre democratiche potenze occidentali. Padre Munir è il direttore del centro salesiano della parrocchia di San Giovanni Bosco a Damasco, un oratorio che ospita 1300 giovani dalla seconda elementare all'università, "per concedere loro qualche ora al giorno di serenità, di servizi essenziali come l'acqua e l'elettricità che in casa non hanno. Ecco perché ci siamo chiamati Oasi di pace". Al contrario di quello che ci dicono anche su questo i media occidentali, alla periferia di Damasco si continua combattere contro l'Isis e i missili continuano a piovere sulla città.
Padre Munir, da quanto tempo voi salesiani siete a Damasco? Di cosa vi occupate sostanzialmente?
Siamo stati invitati a Damasco nel 1992 dalle suore salesiane che già erano qui, loro sono responsabili di un ospedale italiano e di un asilo, anche se la presenza dei salesiani in Siria risale al 1948. Ci hanno chiesto aiuto e noi siamo venuti. Io sono originario di Aleppo, mi sono trasferito qui quattro anni fa e sono il direttore e l'economo di questo centro giovanile che abbiamo costruito intorno alla parrocchia.
Durante gli anni di guerra il vostro quartiere e la vostra parrocchia sono stati colpiti da bombardamenti?
Grazie a Dio bombe dirette su di noi non ce ne sono state, anche se scoppiavano nelle vicinanze e capitava che schegge e pallottole entrassero nella nostra struttura.
Adesso come è la situazione a Damasco? E' pacificata?
Assolutamente no. La situazione a Damasco è ancora complicata, l'Isis è ancora nei dintorni, colpi di mortaio e missili arrivano in città anche se non se ne parla più in occidente, ma questo non vuol dire che in Siria e a Damasco la guerra sia finita. L'esercito nazionale siriano sta facendo sforzi in tutta la Siria, e speriamo che possa finire presto. A Damasco si combatte ancora nelle periferie, la situazione non è assolutamente tranquilla. Recentemente ho dovuto chiudere l'oratorio più volte per questi missili che vengono sparati sulla città, non posso mettere a rischio la vita dei ragazzi.
Ci dica qualcosa del vostro centro.
E' uno dei più frequentati di Damasco, più di 1300 ragazzi dalla seconda elementare fino agli universitari vengono qui da ogni parte della capitale per vivere in serenità qualche ora in modo normale. Grazie a due generatori siamo in grado di avere sempre luce ed elettricità, c'è sempre l'acqua, cose che a casa mancano. Cerchiamo di costruire un ambiente accogliente, per questo l'abbiamo chiamata "Oasi di pace": un posto dove il giovane può stare qualche ora in serenità. Ogni giorno offriamo a tutti un pasto perché anche il cibo nelle loro famiglie è poco.
La Siria era famosa prima della guerra come esempio di convivenza fra religioni e culture diverse. Adesso è ancora così?
La Siria è sempre stata lodata come esempio di convivenza pacifica fra minoranze diverse, anche Benedetto XVI ci ha lodati per questo. Da siriano cristiano nato e cresciuto in Siria, posso testimoniare che è così. Il problema sono i fondamentalisti, che non sono siriani ma sono stati portati qui dai Paesi del Golfo col sostegno di Stati Uniti e Francia (per sconfiggere il presidente Bashar al Assad, ndr). Sono certo che piano piano questo fondamentalismo sparirà, i veri siriani nati e cresciuti qui desiderano solo convivere in pace fra tutti.
Tanti siriani sono fuggiti. I giovani che vengono da voi cosa aspettano dal futuro? Sperano di restare qui e costruirsi una vita o vogliono andare via anche loro?
Il nostro lavoro è aiutare per quel che possiamo a difendere la  presenza cristiana in Siria. Tanti hanno lasciato il paese per tanti motivi, cerchiamo di essere presenti e aiutare le famiglie in tutti i modi possibili. Non possiamo dimenticare che la guerra è un peso molto grande, tanti sono morti, tanti sono stati rapiti. Non puoi dire a un giovane di non partire dopo sette anni di guerra, questo punto interrogativo c'è ancora. Negli ultimi anni si vedono passi forti del governo: è stata liberata Aleppo e altre parti della Siria insieme ai russi. Anche economicamente stiamo male, una volta non ci mancava nulla, c'era lavoro, si viveva bene. Noi preghiamo che tutto questo finisca anche se ci vorranno anni per ricostruire il paese.
In questi anni sentivate vicina la Chiesa di Roma?
La Chiesa ci è sempre stata vicina, oltre che con aiuti economici. Tutti i siriani, anche i musulmani, ringraziano la Chiesa e papa Francesco che ci ha sempre chiamati la Madre Siria, per le preghiere e i digiuni per la pace. E' stata segno di vicinanza per tutti i siriani, segno di presenza del Santo Padre e dei nostri fratelli cristiani.
Se potesse dire con una battuta il cuore, il senso della vostra missione, anche pensando al Natale, cosa direbbe?
La nostra grande sfida è l'aspetto educativo. Dare ai giovani grandi valori educativi e incoraggiarli a vivere in questi momenti così difficili. Così come anche un aiuto spirituale personale. Vi chiediamo di pregare per noi e credere che la sfida più grande nel mondo di oggi è l'educazione, che sia la prova che in queste terre di violenza il valore educativo è quello che più vale su ogni altro aspetto.

venerdì 15 dicembre 2017

La fondazione Agha Khan ricostruirà la Moschea degli Omayyadi e i suq di Aleppo

Il Sussidiario, 15 dicembre 2017
E' l'aprile del 2013 quando in seguito a furiosi combattimenti il minareto della moschea duecentesca degli Omayyadi di Aleppo crolla distrutto dalle bombe. Un danno doloroso per i credenti musulmani e tragico per l'intera umanità, in quanto patrimonio dell'Unesco, risalente addirittura al 1090, uno dei più antichi in assoluto. Originario di Aleppo, anche se in Italia da molti decenni, Radwan Khawatmi, imprenditore di successo, quel giorno di aprile è uno dei tanti che soffre per quanto accaduto. Si rivolge al principe Aga Khan IV, presidente della fondazione che porta il suo nome e che si occupa di oltre 150 progetti di sostegno economico, culturale, sociale in tutto il mondo per i più poveri e lo convince a dare vita a un progetto per la ricostruzione della moschea e dello storico minareto. Domani mattina alle ore 10, presso l'Hotel Ramadà Plaza in via Stamira Ancona a Milano, Khawatmi presenterà ufficialmente questo progetto che è già stato definito il più impegnativo e costoso al mondo per il recupero di un edificio storico. Interverranno anche Giampaolo Silvestri, segretario generale dell'Avsi, i senatori Paolo Romani e Mario Mauro e l'eurodeputato Massimiliano Salini. In questa conversazione Khawatmi ci ha anticipato l'evento.

Dottor Khawatmi, ci può parlare del progetto che presenterà sabato mattina?
E' un progetto che riguarda la città di Aleppo. La guerra, che io non chiamo civile perché non esistono le guerre civili, ha portato alla distruzione della seconda più importante moschea del mondo islamico, ma importante anche per il mondo intero perché patrimonio dell'Unesco, e con essa il suo antichissimo minareto, esempio unico nell'architettura islamica. E' stata una tragedia per tutto il mondo islamico, soprattutto perché coloro che hanno distrutto questa moschea si dichiaravano musulmani, lascio immaginare che devastazione culturale e umana hanno portato queste bande di criminali. Come nativo di Aleppo, non potevo rimanere indifferente.
Cosa ha deciso di fare?
Ho chiamato il principe Aga Khan e gli ho espresso il desiderio di ricostruire il minareto e la moschea. Lui ha accettato e da quel momento è nato un progetto storico unico nel suo genere.
Ci spieghi.
Abbiamo individuato i migliori architetti europei e italiani, dell'Università Statale di Milano e di quella di Macerata. Ho voluto personalmente la presenza di italiani perché l'Italia è l'unico paese al mondo che ha sempre operato per motivi umanitari e di amicizia senza contropartite, a differenza dei francesi che sono andati in Libia solo per conquistare il potere o degli americani e degli inglesi che hanno invaso l'Iraq per qualche barile di petrolio. Io vivo in Italia da decenni e considero essere italiano una conquista, non un certificato che ti regala qualche partito.
A questo punto come avete proceduto?
Ci siamo recati ad Aleppo con ancora i combattimenti in corso, perché temevamo che le pietre crollate venissero rubate dai terroristi come avevamo visto in alcuni filmati. Abbiamo corso enormi rischi ma abbiamo cominciato a lavorare dentro la moschea, abbiamo catalogato tutte le pietre per poter realizzare un progetto architettonico unico nel suo genere.
Questo nonostante la guerra in corso?
Sì e senza voler offendere l'inviato dell'Onu, che non c'è riuscito, con i combattimenti in corso abbiamo riunito a un tavolo il governo, le autorità religiose, le autorità proprietarie dei beni islamici, il governatore della Siria del Nord, l'opposizione, il sindaco di Aleppo e tutti hanno accettato e appoggiato questo progetto. Tutto questo mentre c'era il rischio di essere rapiti dai miliziani dell'Isis.
La cultura e la bellezza sconfiggono anche la guerra…
Abbiamo inviato ad Aleppo i migliori esperti della sezione cultura della Fondazione per catalogare tutte le pietre originali che ancora si possono usare. Da quattro mesi stanno anche insegnando a 30 tra ingegneri e maestranze di Aleppo a lavorare alla ricostruzione, perché vogliamo che anche la popolazione locale sia coinvolta in questo progetto. I lavori di ricostruzione cominceranno il 27 dicembre, ci vorranno circa due anni perché vogliamo ricostruire il complesso con la stessa tecnologia di allora, nel pieno rispetto di com'è stata fatta. Non solo: ad Aleppo esiste il più lungo suq (mercato coperto, ndr) al mondo, 21 chilometri di lunghezza, andato del tutto bruciato. Ricostruiremo anche questo per ridare impulso economico e sociale alla città. Con queste due operazioni è ricominciata la ricostruzione della Siria.
Ma i siriani fuggiti stanno tornando?
Dalla Siria sono fuggiti undici milioni di persone su una popolazione di 22 milioni, la metà del popolo siriano. In Libano su 5 milioni di abitanti c'è un milione di siriani. Non per fare polemiche, ma in Italia le forze politiche si lamentano della presenza di 250mila profughi, meno dell'1% della popolazione. Il problema è che certe città sono andate distrutte al 60% e così le infrastrutture, le scuole, gli ospedali, i ponti, gli aeroporti. Il governo non può  far tornare tutti fino a quando non verrà ricostruito il paese, ma giornalmente rientrano tra 30 e 50mila siriani, il popolo siriano è sempre stato legato alla sua terra. Vogliono tornare a ricostruire la Siria.
La Siria era un esempio di convivenza tra culture e religioni diverse, sarà ancora così?
La convivenza tra le tre religioni ebraica, islamica e cristiana è sempre esistita in Siria. Le sinagoghe erano riferimento per gli ebrei, i musulmani potevano sposare i cristiani e le chiese e le moschee si facevano concorrenza a qual era la più bella. Un esempio di convivenza in tutto il Medio oriente. Per questo io credo che la Siria sia stata punita dal fanatismo islamico. Certamente tornerà la convivenza, è nel nostro dna il rispetto di ogni religione, sono tutti fratelli del Libro. Se apre il Corano leggerà che il più bel versetto è quello che parla della Verginità di Maria, per questo l'Isis ha voluto massacrare gli islamici moderati.
Ci vorrà un lungo lavoro anche di ricostruzione umana, non pensa?
Assolutamente. Purtroppo non avremo più una Siria come quella del 2011, perché 500mila morti lasciano profonde ferite. L'accanimento del terrorismo ha lasciato segni profondi. Avremo una Siria con lo stesso dna, ma una Siria diversa.

venerdì 9 giugno 2017

La strategia di Ue e Usa? Sanzioni, soldi ai terroristi e bombe sui siriani


di Patrizio Ricci
IL SUSSIDIARIO, 9 giugno 2017 
Al recente G7 di Taormina, la decisione di Trump di tirare fuori il suo paese dagli accordi di Parigi sul clima è stata fortemente criticata dai leader europei. Ma — come ha detto l'ambientalista Rebecca Tarbotton (presidente di Rainforest Action Network) — se è vero che gli effetti dei cambiamenti climatici riguardano tutti, è altrettanto vero che "il compito della nostra epoca non si esaurisce solo nel far fronte al cambiamento climatico" e che "occorre guardare più in alto e più in profondità perché l'umanità ha bisogno di un salto di civiltà". E' proprio questo che i leader europei non vogliono capire: tutte le crisi ed i problemi globali in atto nascono da un sistema basato su valori sbagliati e non a causa dei nanogrammi delle particelle delle polveri sottili (queste sono solo uno degli effetti).  L'Unione Europea sembra affetta da una sindrome dissociativa: un giorno i suoi leader si preoccupano per le piogge acide nel mondo; poi a seguito di un attentato, promettono lotta al terrorismo,  ma a fronte di questa narrativa, i fatti dicono tutt'altro: l'Europa supporta e continua a finanziare il terrorismo. 
La settimana scorsa ha rinnovato le sanzioni contro la Siria che impediscono l'importazione di materiali e generi di ogni sorta: anziché i terroristi, la Ue colpisce il latte in polvere, le sementi, i pezzi di ricambio di macchinari, i lacci per le scarpe (il regime potrebbe usarli per legare i prigionieri), i medicinali (per effetto delle sanzioni in Siria non è più possibile trattare le malattie oncologiche e quelle croniche). L'enormità di queste sanzioni è tale che il tomo che le ospita supera le 2300 pagine (se si considerano tutti i link che ne fanno parte integrante). Infine, le sanzioni hanno avuto come effetto quello di produrre più morti di quelle dovute ai combattimenti stessi. 
Sorda alle evidenze, l'Unione Europea è stata sorda anche ad ogni voce che si è levata per l'interruzione delle sanzioni, compresa nel 2016 quella dei vescovi siriani.
Se poi esaminiamo la principale motivazione che il provvedimento porta con sé per giustificarle, ci accorgiamo che è addirittura farneticante. La principale giustificazione su cui si reggono le sanzioni è infatti che "Assad reprime il suo popolo". Ebbene, questa è una spiegazione scritta in perfetta malafede perché è un dato che in realtà la gente lo sostiene. Il supporto da parte del popolo siriano al presidente Bashar al Assad non è venuto mai a mancare, neanche all'inizio dell'insurrezione. Lo rilevava già nel 2012 il  "YouGov Siraj" commissionato dal Qatar, cioè uno dei più acerrimi nemici di Assad. La prospezione rilevava che il 55 per cento dei siriani già all'indomani della rivolta, continuava a sostenere Assad. Inoltre, a sconfessare quanto sostenuto dall'Unione Europea, c'è addirittura un report della Nato del 2013, secondo il quale il 70 per cento della popolazione sosteneva Assad mentre per il 20 per cento si diceva neutro e solo il 10 per cento era dalla parte dei ribelli (World Tribune). Infine, anche due distinti sondaggi dell'Orb International, hanno rilevato (nel 2014 e poi nel 2015) che la maggioranza dei siriani che credono che il governo di Assad meglio rappresenti i loro interessi e aspirazioni, sono in numero superiore a quelli che preferiscono uno qualsiasi dei gruppi di opposizione.  
In base a questi risultati oggettivi, è evidente che le decisioni prese dall'Unione Europea vanno contro la volontà del popolo siriano. 
Ma allora quali interessi va difendendo l'Unione Europea? E' chiaro che Bruxelles tiene fede a ragioni di profitto e non alla verità: per questo ha scelto la dissimulazione. Di conseguenza, i media hanno diffuso un'informazione totalmente falsa e funzionale alle agende governative. I mezzi di comunicazione si sono rivelati sempre ostili al governo siriano colpevole di "bombardare il suo stesso popolo" e di "assediare" Aleppo (occupata da al Qaeda); quando però le forze irachene e la coalizione a guida Usa hanno liberato la città irachena di Mosul (occupata dall'Isis), hanno minimizzato sulle perdite civili ed hanno decretato la sua liberazione. Eppure le perdite civili per la liberazione di Mosul sono state ingenti almeno quanto quelle causate per la liberazione di Aleppo. 
E'evidente che noi siamo fruitori non di informazione ma di propaganda: secondo Airwars (organizzazione britannica che tiene il conto dei non-combattenti uccisi negli attacchi aerei), a causa dei bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti su Mosul, solo nel mese di marzo sono morte 1.257 persone. Successivamente i morti ad opera della coalizione anti-Isis anziché diminuire sono aumentati: è successo in queste ultime settimane, quando dopo la liberazione di Mosul, gli Usa e gli alleati curdi del Syrian Democratic Force (Sdf) hanno lanciato l'operazione per liberare Raqqa dal califfato. Anche in questo caso, non si è risparmiato l'uso della forza: la città è stata bombardata anche con i B52.  
Aerei Coalizione colpiscono Raqqa con fosforo bianco 
In breve Raqqa si è trasformata in un inferno: la situazione è diventata così drammatica per la popolazione che martedì scorso anche l'Onu ha fortemente criticato i bombardamenti della coalizione. Stessa cosa ha fatto l'Osservatorio Siriano per i diritti Umani — che notoriamente è a favore degli Usa e sostiene i ribelli — ha denunciato centinaia di vittime civili nella "capitale del califfato".
I bombardamenti aerei, accompagnati dall'artiglieria americana e britannica, di stanza in una fabbrica di zucchero a nord della città, hanno messo i civili in uno stato di panico, paura e confusione. La situazione è resa ancora più pesante per il fatto che l'Isis impedisce ai residenti rimasti di lasciare la città. La situazione umanitaria è notevolmente peggiorata a causa della mancanza di personale medico e medicine, inoltre da quattro giorni c'è la completa cessazione dell'elettricità, e l'assenza completa riguarda anche il carburante e la farina. Inoltre, tenendo fede sull'utilizzo dell'Isis anche in chiave anti-Assad, le Syrian Democratic Force (Sdf) e le truppe speciali occidentali hanno concesso una via di fuga a migliaia di militanti dell'Isis verso Deir Ezzor e Palmyra. L'intenzione è chiaramente quella di danneggiare l'esercito siriano che presidia quelle zone e che avanza verso Deir Ezzor. L'aviazione russa per contenere il pericolo, deve effettuare ogni giorno voli ininterrotti per attaccare e neutralizzare le autocolonne dell'Isis. 
Questo è uno spaccato del clima, del "modus operandi" e del non senso introdotto in Siria. Dov'è la repressione di Assad in atto contro il suo popolo? I fronti attualmente aperti in territorio siriano hanno il solo scopo di far cessare una guerra che continua ad esistere solo per volere della Comunità internazionale e non per volontà dei siriani. La comunità internazionale, per scarsità di combattenti disposti a contrapporsi alle forze governative, ha addirittura dovuto far ricorso a forze proprie. In questo momento, forze speciali norvegesi, americane e britanniche sono in territorio siriano per proteggere i propri mercenari raccolti in Giordania e nelle zone rurali siriane, tra le tribù notoriamente disposte a dare il proprio contributo al miglior offerente.
Mentre continua a consumarsi questa tragedia, l'Europa senza cercare le radici del male là dove si vede con tutta evidenza, continua la sua guerra contro se stessa. Intanto, illumina di verde i suoi municipi e organizza manifestazioni a difesa del clima. Naturalmente la decisione come sempre è "double face": un occhio al clima ed un occhio a Trump, per vedere se stavolta cade.

lunedì 1 maggio 2017

Suor Yola e la speranza invincibile

Sono circa sei milioni i bambini che in Siria hanno subito il trauma della guerra, una iniziativa dei cristiani di Damasco per aiutarli a riprendere fiducia. L'intervista a suor YOLA GIRGIS

"Per favore, riporti tutto come le ho detto, non come fanno sempre i giornali quando parlano della Siria, ribaltando tutto e inventandosi le cose" dice suor Yola Girgis, superiora della Comunità di Damasco delle Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, a Roma per la presentazione del progetto di collaborazione con la Fondazione Giovanni Paolo II e l'Ospedale Bambin Gesù rivolto ai piccoli siriani colpiti da disturbi post-traumatici da stress. Ha ragione da vendere suor Yola, che accusa i media occidentali di perseguire gli obiettivi delle loro leadership politiche: indicare in Assad il diavolo da abbattere e sostenere gli jihadisti. "Le bombe americane? Senta: Damasco esiste da 7mila anni, ha una storia e una civiltà che hanno resistito a tutte le guerre, pensa ci faccia paura un paese che non ha neanche 500 anni di storia?" dice ancora, mostrando il coraggio da vendere che ha permesso a questo popolo di resistere a sei anni di carneficina. Il progetto, che accoglie bambini cristiani e musulmani ("Perché noi abbiamo vissuto sempre di amore dei concordia e lo facciamo ancora adesso nonostante le bombe") si rivolge a quei 6 milioni di bambini siriani che vivono sotto i bombardamenti. Di questi, circa 3 milioni sono cresciuti vedendo solo la guerra (fonte UNHCR). Una generazione di bambini colpiti dalla guerra e dalle sue conseguenze come gravissimi disturbi post-traumatici da stress.
Suor Yola, ci spiega di cosa si tratta questo progetto che siete venuti a presentare all'Ospedale Bambin Gesù di Roma?
E' un progetto già iniziato che grazie alla Fondazione San Giovanni Paolo II ha adesso le risorse per continuare. Noi accogliamo bambini dai 6 agli 8 anni dando loro un sostegno psico-sociale attraverso metodi come il disegno, la recitazione, la condivisione. Abbiamo preparato dei giovani istruttori che aiutano i bambini a esprimere i loro sentimenti riguardo al trauma subìto per via della guerra. Purtroppo la guerra e la violenza lasciano nei bambini segni devastanti. Con il nostro lavoro li aiutiamo a esprimere le loro paure, le loro gioie, li aiutiamo a riavere fiducia in se stessi.
Molti di loro saranno anche orfani.
Alcuni sono orfani, altri hanno il padre che è al fronte a combattere. Vedendo tanti soldati morti la notizia che aspettano ogni giorno, invece di sapere se il padre sta tornando a casa, è se il loro papà è morto. E' questo che si aspettano, la morte del loro papà.
Sono bambini sia cristiani che musulmani?
Certamente, non facciamo alcuna differenza. Anzi, visti i risultati straordinari sui bambini musulmani l'anno prossimo aumenteremo ancora la loro quota, facendo 50 più 50 per cento. Per loro cose come l'oratorio, il campeggio, la condivisione guidata non esistono, i musulmani non hanno queste cose, stanno in strada da soli. Abbiamo visto come il nostro modello educativo li abbia colpiti e affascinati.
Ed è la possibilità di ricostruire un dialogo?
Questa realtà condivisa in Siria è sempre esistita. Io sono nata qui, i musulmani per noi cristiani sono siriani e niente altro. Abbiamo giocato insieme, abbiamo fatto le stesse scuole. Adesso cerchiamo di ricucire questa ferita che la guerra ha cercato di produrre per dividerci, ma senza riuscirci.
Come è la situazione adesso a Damasco? 
La gente continua a fare le sue cose, a vivere la sua vita, ma c'è sempre l'attesa che accada qualcosa di brutto. Tranquilli non lo siamo mai. Spesso di notte mi affaccio alla finestra del convento e prego perché ho paura che un terrorista entri nel convento, loro vogliono prendere Damasco. Però la vita va avanti, le scuole sono sempre rimaste aperte e le attività delle chiese vanno avanti anche sotto i missili. 
Quando l'America vi ha bombardati vi siete sentiti traditi?
Tutto il mondo ci ha abbandonati. Anche l'embargo di medicine è una cosa orribile, la gente muore di cancro perché non ci sono medicine. Ringraziamo l'Italia che con iniziative come questa ci sta vicino, ci dà speranza, ci dice che Dio è vicino.
E il papa?
Il papa è la voce di Dio. A volte io dico: Dio perché stai in silenzio, perché non fermi questa guerra? Ma ogni volta che sento il papa sento la voce di Dio, che dice: non preoccupatevi io sono sempre con voi. Possono distruggere le nostre case ma la nostra cultura non la distruggerà neanche Trump.
(Paolo Vites) 

mercoledì 22 febbraio 2017

Dopoguerra e petrolio, chi ricostruirà la Siria


Il Sussidiario, lunedì 20/02/2017
di Patrizio Ricci

Il 16 di febbraio si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, il secondo round di trattative dirette tra governo siriano e opposizione armata. L'incontro non è cominciato con i migliori auspici: per minare le trattative, la delegazione dei ribelli è arrivata con un giorno di ritardo. Tale atteggiamento ha generato non poca confusione e disappunto tra le parti. Tuttavia, cercando di salvare il salvabile, i funzionari russi hanno insistito per spostare l'apertura dei colloqui a mezzogiorno del giorno successivo. Così l'incontro si è tenuto senza ulteriori interruzioni. Nella conferenza stampa finale il rappresentante siriano Bashar Jaafari si è però dimostrato molto contrariato per l'atteggiamento dei rappresentanti delle milizie armate. Nello stesso tempo, ha denunciato la mancanza di serietà della Turchia perché ancora "continua a facilitare l'ingresso di decine di migliaia di mercenari stranieri provenienti da tutto il mondo" in Siria. Jaafari ha anche detto che Ankara, come garante del cessate il fuoco, non può continuare a svolgere il ruolo di "pompiere" e nello stesso tempo di "piromane".

Ciononostante, si può dire che la riunione sia stata coronata dal successo, tenendo anche conto che si tratta di una riunione preparatoria a quella successiva che si terrà tra breve a Ginevra. In questo senso, è positivo che comunque si sia riuscito a prolungare ulteriormente il cessate il fuoco ed a sottolineare la necessità di distinguere in maniera sempre più precisa i gruppi che sono disposti ad una soluzione politica da quelli che la rifiutano. Questi ultimi (che continuano ad essere nel libro paga dei sauditi e dei qatarioti), per ottimizzare le risorse disponibili, coordinarsi e penetrare più profondamente sul territorio siriano, hanno dato vita il 28 gennaio ad un nuovo raggruppamento chiamato Tharir al Sham. E' proprio questa nuova formazione che sta dando filo da torcere all'esercito siriano a Daraa, a sud della Siria.

Tuttavia, mentre i combattimenti continuano specialmente contro l'Isis, l'esigenza più urgente per la popolazione siriana non è di ordine politico ma di aiuto immediato e di ricostruzione.
Venendo incontro a questi bisogni, il centro russo per la riconciliazione nazionale continua a mediare con i gruppi ribelli promettendo un ruolo nella ricostruzione del paese: finora sono più di 900 gruppi armati che si sono riconciliati con il governo. L'intensa attività diplomatica di Mosca è riuscita ad attenuare l'atteggiamento ostile di Turchia e Giordania nei confronti della Siria: Erdogan, con l'operazione "scudo dell'Eufrate" a nord della Siria, ha reindirizzato le bande armate filo-­turche in funzione anti-­Isis e anti curda. La diminuzione delle pretese turche ha convinto Re Abdullah di Giordania a ritirare le sue milizie dalla Siria. Il sovrano hascemita sta attuando un più stretto controllo dei confini ostacolando i rifornimenti forniti da sauditi e qatarioti attraverso le frontiere giordane.

Parlavamo della necessità di ricostruzione: la Siria è completamente distrutta, ma visto che è ricca di fonti energetiche queste potranno essere utilizzate come mezzo per finanziare la ricostruzione del paese. Le risorse interessano tutti, tant'è che sono anche la chiave di lettura della dislocazione di Isis in Siria. Non so se ci avete fatto caso, l'Isis si è dislocato solamente in zone ricche di petrolio: i pozzi petroliferi di Al­Tanak, Al­Omar, AlTabka, Al­Harati, Al­Shula, Deira, Al­Time e Al­Rashid, sono situati tutti in zone conquistate dal califfato lungo il corso del fiume Eufrate.
Il basso costo del greggio e la presenza a Raqqa di raffinerie spiega anche perché lo stato islamico l'abbia scelta come capitale. Pure l'insistenza del califfato nel conquistare Deir el Zor e Palmyra non è casuale: la sola regione di Deir el Zor produceva a metà 2015 (prima dell'intervento dei russi) 34­40 milioni di barili di greggio al giorno.
La conservazione di risorse vitali gioca un ruolo di primo piano nelle strenua resistenza del governo per non cedere queste aree. Il fattore petrolio spiega anche perché l'obiettivo principale dei turchi continui ad essere la città di Al Bab (a nord di Aleppo): secondo i dati del Financial Times, Al Bab insieme ad Aleppo è stata uno dei principali mercati per la vendita illegale di prodotti petroliferi in Siria con la Turchia. Allo stesso modo, la presenza di due raffinerie ha indirizzato la scelta dei ribelli di conquistare la città di Idlib: anche in questo caso, le fonti energetiche e la vicinanza al confine turco sono due ottime ragioni. Il desiderio di accaparrasi il petrolio è anche una delle chiavi di lettura del vecchio piano "B" americano (o "Safe zones" di Trump) che prevede la divisione della Siria in zone etniche (sunniti, sciiti ecc.) ma mira soprattutto alla sottrazione delle fonti energetiche al governo centrale.

In questo contesto, l'Europa non è rimasta a guardare: ci sono segnali che la "vecchia Europa" stia valutando i benefici economici derivanti dalla partecipazione alla ricostruzione della disastrata economia del paese.
In questo senso, nelle ultime settimane sono avvenute frequenti visite a Damasco di delegazioni parlamentari europee: l'ultima è stata una nutrita delegazione francese (ed è la prima volta dall'inizio del conflitto). Anche le interviste ad Assad da parte dei media occidentali si sono moltiplicate: le ultime sono state quelle di Yahoo News e della francese Europe 1, TF1 e LCI.
E' ingenuo pensare che queste delegazioni abbiano agito senza il placet della leadership europea e dei rispettivi governi: è chiaro che i paesi europei stiano cercando di riposizionarsi per trarne vantaggio. Tuttavia, per ora non si dovranno fare grandi illusioni: nel corso di un incontro con parlamentari belgi, Assad ha detto chiaramente che dall'inizio della guerra, la maggior parte dei paesi europei hanno adottato una politica non realistica verso la Siria e ha aggiunto che questa politica "ha isolato ed eliminato qualsiasi ruolo che l'Europa ora potrebbe svolgere a causa del proprio sostegno alle organizzazioni che hanno praticato ogni forma di terrorismo contro il popolo siriano".
Ed ancor più esplicito è stato il ministro dell'Economia siriano Adib Mayala, che su Ria Novosti ha detto: "alcuni paesi stanno cercando di penetrare con imprese e fondi non governativi di loro proprietà, che vengono creati nei paesi vicini della Siria come il Libano, così come nei paesi che sono rimasti neutrali durante la crisi". Il ministro ha precisato che contro tale prospettiva, il governo siriano ha promesso "uno stretto monitoraggio di coloro che vogliono partecipare al restauro dell'economia siriana, vanificando i tentativi di intervento di coloro che di recente hanno partecipato alla distruzione dello Stato".

In sostanza, chi beneficerà dei vantaggi derivanti della ristrutturazione dell'economia siriana saranno i più stretti alleati di Damasco: Mosca, Pechino e Teheran. La cooperazione con questi tre paesi, inserita in un piano per rilanciare l'economia, si svolgerà in molti settori come l'industria petrolifera, l'agricoltura, le comunicazioni. 
Invece, per quei paesi che hanno sostenuto l'attività delle bande armate in Siria (ed ora si dicono interessati al recupero dell'economia siriana) il ministro Mayala pone come condizione preliminare che "riconoscano il proprio errore e si scusino con il popolo siriano": sarebbe la cosa da fare più semplice e giusta, ma scusarsi ed imparare dai propri errori sembra non essere nello stile dei paesi europei.