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venerdì 30 marzo 2018

La Via Crucis dei cristiani in Siria

La testimonianza di don Mounir Hanachi, direttore del centro salesiano a Damasco


intervista di Federico Cenci

P
er molti cristiani nel mondo la salita sul Calvario è una realtà vissuta quotidianamente, sulla propria pelle. Per i cristiani in Siria la “passione” dura da otto lunghi anni. In quel Paese martoriato le stazioni della Via Crucis sono storie di vita che è possibile leggere negli sguardi della gente o nei loro racconti carichi di trasporto emotivo.
Si legge l’inquietudine per le condanne a morte decretate dai terroristi e dall’indifferenza occidentale. Si avverte il batticuore per gli ultimi gesti di affetto in famiglia prima delle separazioni forzate. Si percepisce l’emozione per gli episodi di grande umanità e di altruismo. Si piange per le migliaia di vittime del conflitto. Ma poi c’è anche la “risurrezione”. I cristiani di Siria ne sono convinti. Qualche segno inizia a farsi largo a mo' di un raggio di luce nell’oscurità, come la riapertura dell’oratorio salesiano di Damasco, che accoglie 1.300 ragazzi, avvenuta la Domenica delle Palme dopo la sospensione delle attività a febbraio. In Terris ne ha parlato con don Mounir Hanachi, 34enne direttore del centro salesiano della parrocchia di San Giovanni Bosco, nella Capitale.
Don Mounir, che senso assume la riapertura dell’oratorio?
“È stata una gioia immensa. Può immaginare la felicità dei ragazzi nel riappropriarsi di momenti di aggregazione, di studio, di sport. In questi anni di guerra non era la prima volta che sospendevamo le attività, ma mai ci era capitato di doverlo fare per cinque settimane di seguito. Ringraziamo il Signore e quanti ci hanno sostenuto con la preghiera. E ringraziamo anche l’esercito siriano e i suoi alleati per la liberazione della Ghouta”.
Per cinque anni, Ghouta Est è stata occupata dai “ribelli”. Cosa ha significato per voi abitanti di Damasco questa presenza?
“Sono stati cinque anni all’insegna del sangue. Il suono dei colpi di mortaio e dei missili era una presenza costante, che ha seminato morte. Ci sono stati tanti bambini tra le vittime, abbiamo perso diversi ragazzi dell’oratorio. Oggi in Siria non trovi una famiglia che non abbia perso almeno una persona cara o che non si sia divisa, perché in molti sono fuggiti all’estero. Esperienze che ho vissuto anch’io: mio nonno è stato rapito mentre viaggiava lungo l’autostrada, gli sono stati sparati contro dei proiettili, siamo riusciti a riscattarlo pagando una cifra enorme. Ci vorranno almeno due generazioni per sanare le ferite”.
Questi “ribelli” chi sono?
“Sappiamo tutti chi sono i ‘ribelli’: gruppi armati composti da molte persone venute dall’estero. Hanno ricevuto il sostegno da alcuni Paesi occidentali e del Golfo. Ma questo ormai è chiarissimo”.
Nelle scorse settimane ha scritto una lettera pubblica per denunciare “la manipolazione dell’informazione” in Occidente riguardo ciò che accade in Siria. A cosa si riferiva?
“Prima di tornare in Siria vivevo in Italia. Tutti i giorni avevo modo di leggere come venivano manipolate le informazioni sul conflitto pur di gettare discredito sul governo siriano. Leggevo i siti siriani, raccoglievo le testimonianze dirette, e poi vedevo che tutto ciò era stato totalmente stravolto dai media italiani ma non solo. E questo è avvenuto per anni. Il ruolo del giornalista dovrebbe essere quello di riportare i fatti, non di fare propaganda”.
La manipolazione dei media ha ferito il popolo siriano?
“Moltissimo. La delusione è palpabile. Così come la frustrazione qui da noi, perché non si riusciva a rompere il silenzio sulla sofferenza vissuta da 8milioni di persone a Damasco durante l’occupazione del Ghouta”.
Come valuta l’atteggiamento della comunità internazionale in questi otto anni di guerra?
“Come siriani non crediamo più alla comunità internazionale: sono state spese tante parole, ma pochi fatti. Crediamo soltanto all’esercito nazionale siriano, che ha il diritto di difendere il popolo siriano”.
Nel contesto tragico della guerra avvengono anche episodi di grande umanità?
“È dura, ma di episodi ne avvengono molti. Ci sono momenti di forte crisi, di smarrimento. Però la fede cristiana in Siria è davvero forte. I ragazzi dell’oratorio, le loro famiglie consegnano tutto al Signore e vanno avanti con la speranza che il domani sarà migliore. Tra fratelli nella fede ci trasmettiamo il coraggio a vicenda”.
Che senso assume la Settimana Santa per chi, come voi, vive in una terra martoriata?
“Dalla Domenica delle Palme siamo entrati in un clima di grande devozione, con processioni e momenti di preghiera comunitaria in chiesa. Dopo anni di paura nel manifestare pubblicamente la propria fede, finalmente si sta tornando alla normalità”.
Dopo la “passione”, si avverte già l’arrivo della “resurrezione”…
“Esattamente. Se torna la pace, riprendono anche le attività e dunque l’opportunità per la gente di non essere costretta ad emigrare”.